Il FEAR Play Finanziario
Un viaggio all’interno del Fair Play Finanziario, che mette così tanto in crisi le società italiane. Scopriamo perché.
Durante una discussione in redazione con alcuni colleghi su quanto possano o non possano spendere le società italiane durante le sessioni di calciomercato, nella mia ricerca di “prove” che testimoniassero la veridicità delle mie tesi, mi sono imbattuto in un trattato intitolato “Il Fair Play Finanziario nel mondo del calcio”, scritto da tre studenti del corso di Politica Economica della Università di Milano-Bicocca.
Dopo averlo letto tutto, mi sono chiesto: ma quanti sanno sul serio cos’è questo benedetto Fair Play Finanziario? Quanti sanno di cosa parlano, mentre lo fanno?
Nel gioco del calcio il termine “fair play” si usa per descrivere il “rispetto” dell’avversario, il “giocare con lealtà, attenendosi alle regole del gioco senza barare”.
Quindi, tornando alla nostra questione, anche chi non sapesse il vero significato del termine, partendo dal suo significato applicato al gioco in sé potrebbe arrivarci: avere rispetto dell’avversario anche in termini finanziari, giocare seguendo tutti le stesse regole finanziarie, senza barare.
Ma perché – penserete voi –, si può barare nella finanza calcistica? Non è che chi ha più soldi compra più giocatori forti e, spesso ma non sempre, vince?
E non è barare? – Risponderei io.
Allora mi son deciso: proverò a spiegare in termini più comprensibili possibili cosa significa Fair Play Finanziario, cosa non permette di fare e cosa comporterà a tutte le società europee di calcio, in modo che tutti, leggendo questo articolo, possano davvero capire di cosa si sta parlando in questi mesi nel calcio.
Partiamo dall’inizio. Cos’è il FPF?
L’ideatore è il presidente UEFA Michel Platini (indimenticato numero 10 della Juventus), che ha deciso di trovare un modo per contrastare ciò che hanno iniziato i nostri Berlusconi e Moratti venti/venticinque anni fa e che gli attuali presidenti di Manchester City o PSG stanno proseguendo in questo periodo storico: usare la propria forza economica per dominare la scena calcistica.
Prima dell’arrivo del FPF, sostanzialmente, non c’erano limiti di spesa. L’ipotetico presidente di una squadra voleva spendere 700 milioni di euro per cartellini e stipendi? Se ne aveva la facoltà, poteva. Bastava poi ripianare il bilancio per sistemare i conti. Capite bene che in questa situazione c’erano troppi vantaggi per chi disponeva di grosse somme di denaro rispetto agli altri.
Il FPF, in pratica, è un percorso, approvato nel 2009 ma iniziato proprio quest’anno, che costringerà tutte le squadre europee a spendere esattamente quanto fatturato, cioè portandole ad un ipotetico pareggio di bilancio entro il 2018. Non potranno più esistere, quindi, bilanci con perdite di 100 o 200 milioni di euro, poi ripianate dai facoltosi presidenti. Ogni società dovrà riuscire ad essere auto-sufficiente. La differenza, quindi, la farà il fatturato di ogni società. Se una società fattura 100, potrà spendere 100. Ma se una società fattura 400, potrà spendere 400.
Gli obiettivi del FPF quali sono?
– introdurre più disciplina e razionalità nel sistema finanziario dei club;
– abbassare la pressione delle voci salari e trasferimenti e limitare l’effetto inflazionistico;
– incoraggiare i club a competere nei limiti dei propri introiti;
– incoraggiare investimenti a lungo termine nel settore giovanile e nelle infrastrutture;
– difendere la sostenibilità a lungo termine del calcio europeo a livello di club;
– assicurare che i club onorino i propri impegni finanziari con puntualità.
Anche in questo caso, è facilmente comprensibile di come sia impossibile raggiungere tutti questi obiettivi in un solo anno e, quindi, la UEFA ha deciso di dividere il FPF in 3 fasi graduali che, come detto, porteranno al pareggio di bilancio nel 2018. Vediamo le singole fasi in cosa consistono:
1° Fase – Triennio 2012, 2013, 2014:
La UEFA analizzerà i bilanci delle società di calcio relativi agli esercizi 2012, 2013 e 2014. Il risultato complessivo aggregato non dovrà evidenziare perdite superiori ai 45 milioni di euro. Sarà comunque possibile uno scarto, definito “deviazione accettabile”, pari a 5 milioni di euro. (esempio: se una società, nei tre bilanci dovesse registrare una perdita di 80 milioni nel 2012, un utile di 30 milioni nel 2013 e un utile di 15 milioni di 2014 rientrerebbe nei parametri, perché il risultato complessivo darebbe come risultato una perdita di 35 milioni)
2° Fase – Triennio 2015, 2016, 2017:
I bilanci in esame nella seconda fase saranno quelli degli esercizi 2015, 2016 e 2017. La perdita aggregata non potrà essere superiore ai 30 milioni di euro, ma sarà sempre possibile uno scarto di 5 milioni.
3° Fase – 2018:
Pareggio di bilancio, con la famosa “deviazione accettabile” pari a 5 milioni di euro ancora in vigore.
E’ ovvio, quindi, che le squadre in possesso di uno stadio di proprietà o di un settore giovanile in grado di fornire giovani talenti in continuazione (come per esempio il Barcellona) siano in netto vantaggio rispetto alle altre, perché hanno più entrate e meno spese. Ecco perché vanno letti con attenzione due “cavilli” del regolamento, che lasciano intendere quali siano i reali obiettivi della UEFA introducendo queste normative finanziarie:
1) Non verranno contabilizzati come costi le spese d’acquisto e di ingaggio degli under 18;
2) Non verranno contabilizzati come costi gli investimenti per la costruzione di un impianto sportivo, relativamente al tempo in cui la spesa verrà ammortizzata.
Quindi gli ipotetici costi per la costruzione di uno stadio di proprietà o dell’acquisizione di un giovane talento, non conterebbero ai fini del FPF. Due regole che permettono ai club di poter investire per poter aumentare il proprio fatturato, senza pesare sui costi del bilancio.
Ma se una squadra non rispetta i parametri? Cosa succede?
Succede che la UEFA esclude la squadra in questione dalle competizione continentali, quindi niente partecipazione in Champions League e in Europa League. Di fatto, niente incassi dagli stadi per le partite che avrebbe ipoteticamente giocato, niente incassi dai diritti televisivi e niente incassi dalla UEFA per il superamento dei vari turni della competizione. Una mannaia economica, in pratica.
Ma, alla fin fine, se la UEFA impone il FPF per “far giocare tutti allo stesso gioco”, perché si parla sempre delle squadre italiane più in difficoltà rispetto alle altre degli altri quattro grandi campionati (Inghilterra, Spagna, Germania e Francia)?
Perché, di fatto, non si gioca propriamente allo stesso gioco. O meglio, non ancora. La differenza sostanziale tra i cinque maggiori campionati europei la si può capire analizzando i numeri.
Prima di tutto, prendiamo in esame i ricavi complessivi di ogni campionato. In prima posizione c’è la Premier League inglese, che nella stagione 2010/2011 ha fatturato per 2,5 miliardi di euro. Subito dietro c’è la Bundesliga tedesca con i suoi 1,75 miliardi di ricavi. Al terzo posto la Liga spagnola con 1,72 miliardi, al quarto la nostra Serie A con 1,55 miliardi di ricavi e in ultima posiziona la Ligue 1 francese, con 1,04 miliardi.
Al di là dei ricavi totali, quello che fa capire quanto il nostro calcio sia in difficoltà rispetto al resto d’Europa è l’analisi più approfondita sul “peso” degli stipendi sul fatturato e sulla suddivisione delle entrate, per capire da “dove arrivino”.
Il campionato più virtuoso nel rapporto tra costi degli stipendi sul fatturato è quello tedesco, in cui il rapporto è al 53%. Poi ci sono la Spagna con il 59% e l’Inghilterra con il 70%. In ultima posizione Italia e Francia, con ben il 75% di rapporto tra stipendi e fatturato. In parole povere, in Italia, in proporzione, si spende di più per gli stipendi dei giocatori che in qualsiasi altro Paese in Europa.
Se poi andiamo a guardare la suddivisione delle entrate di ogni singola squadra, il cerchio si chiude:
Nella classifica dei team europei che fatturano di più, ai primi due posti troviamo Real Madrid e Barcellona (479 e 450 milioni di euro), al terzo il Manchester United (367 milioni di euro), al quarto il Bayern Monaco (312 milioni di euro). La prima italiana è il Milan, al settimo posto, che ha fatturato 235 milioni di euro.
La differenza, come si può notare, è già abissale in assoluto, ma lo è ancora di più se entriamo nello specifico. Per il Barcellona gli incassi dallo stadio sono stati di 110,7 milioni di euro, ossia il 24% del totale. Gli incassi da diritti televisivi sono di 183,7 milioni, il 41% del totale, mentre gli incassi dall’area commerciale sono di 156,3 milioni, pari al 35% del totale. Il Manchester United ha incassato dallo stadio 120,3 milioni (33%), dalle tv 132,2 milioni (36%) e dall’area commerciale 114,5 milioni (31%). Il Bayern Monaco ha fatturato 71,9 milioni dallo stadio (22%), 71,8 milioni (22%) dalle tv e 177,7 milioni dal merchandising e sponsorizzazioni, pari al 56% del totale.
Guardando i numeri di una società italiana, come il Milan per esempio, si vedono subito le differenze: solo 35,6 milioni dallo stadio (15%), 107,7 milioni dai diritti tv (46%) e 91,8 milioni dall’area commerciale (39%).
Il Milan rappresenta al meglio il poco equilibrio del calcio italiano, dove i diritti televisivi hanno un peso sproporzionato rispetto alle altre voci. Gli stadi di proprietà, Juventus a parte, sono ancora un miraggio e le pay-Tv sono il vero motore economico del nostro calcio. Il nostro, fondamentalmente, è un sistema economico vecchio, da rifondare, che finché non si aprirà totalmente alla costruzione di stadi di proprietà ci vedrà sempre in difficoltà rispetto al resto delle squadre europee. Perché la differenza è tutta lì, negli stadi. Basti pensare che le società italiane, Juve a parte, pagano un affitto ai Comuni e non possono usufruire degli stadi durante la settimana. Una squadra non italiana, per esempio, può costruire un vero e proprio centro commerciale fatto di ristoranti, palestre e negozi all’interno del proprio stadio e prenderne i ricavi.
La lotta è impari e, finché qualcosa non cambierà, la situazione per i club italiani sarà sempre peggiore.
Ecco perché se ne parla tanto, ecco perché è così temuto qui in Italia. Il Fair Play Finanziario fa “giocare tutti con le stesse regole”, ma noi italiani, come al solito, giochiamo proprio ad un altro gioco.
Fonti:
– “Il Fair Play Finanziario nel mondo del calcio” di Alessio Fumagalli, Jacopo Mandelli e Luca Perego – Corso di Politica Economica dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, anno accademico 2011/2012
– www.repubblica.it
– www.deloitte.com