Il riepilogo di questi ultimi giorni, in Europa, è abbastanza impietoso: perdere col Málaga non è l’ambizione massima di chi si ritiene il club più titolato al mondo, così come fa specie sentire che la Juventus non riesce a far sua la partita contro i campioni danesi del Nordsjælland, che peraltro, a oggi, sembrano in difficoltà nel confermarsi in patria.
Al piano di sotto: l’Inter passa solo di misura col Partizan, la Lazio pareggia ad Atene (sponda Panathinaikos), l’Udinese che viene suonata 3-1 in Svizzera (Young Boys: una beffa per chi i giovani è abituato a scovarli) e il Napoli che va a prendere la stessa scoppola in Ucraina: vero che sulla panchina di casa sedeva nientemenoché Juande Ramos, ma sfido qualsiasi italiano (che non sia Michael Braga) a dirmi dove si trovi Dnipropetrovsk.
Realisticamente, il cammino in Champions è molto peggio che compromesso, per questa stagione. Pari in casa dell’Anderlecht, vittoria in quella dello Zenit, e la sconfitta che abbiamo detto a Málaga: risultati che non fanno sperare in un Milan in grado di giocarsi tutte le possibilità imposte dal blasone. La Juventus invece soffre di pareggite: ottimo strappare il risultato utile in casa dei campioni uscenti del Chelsea, battuta d’arresto ancora accettabile contro lo Shakhtar, ma in Danimarca bisognava portarsi avanti. E ora è durissima.
Non farò un’analisi parallela della situazione in Europa League: penso che il messaggio sia già chiaro a sufficienza. E cioè che il livello del campionato italiano, si voglia o non si voglia, si è abbassato, almeno per ora. Almeno per quello che riguarda le squadre cosiddette di vertice. La crisi è sì economica, ma anche tecnica. (Varrebbe anche per il resto del paese, peraltro.)
E all’estero, all’estero, come se la passano? Con comprensibili alti-e-bassi, verrebbe da dire; ma gli alti possono insegnarci qualcosa. Per esempio il Borussia Dortmund: un progetto costruito attorno al progetto-Germania, per una squadra giovane, principalmente autoctona e piena di talento, con un allenatore come Jürgen Klopp (giovane, emergente e non necessariamente ortodosso).
Il Porto, invece, ci ha da sempre abituato a lanciare grandi giocatori (rivendendoli a peso d’oro), pur riuscendo a rimanere ai vertici continentali; e anche l’edizione 2012/2013 non sembra fare eccezione. James David Rodríguez, colombiano, sarà presto un gioiello di mercato; ma nel frattempo è un attaccante che in campionato va bene, e in Champions può serenamente cominciare a dire la sua.
Viene da chiedersi, allora, perché mai l’Udinese ancora non riesca ad arrivare a tanto, per esempio. Oppure, come ha detto tempo fa Vito Coppola, perché mai debba qualificarsi alla Champions con una McLaren se poi il preliminare lo farà con una Marussia.
La domanda vera, però, è un’altra: siamo davvero sicuri che il calcio italiano, pure in crisi, non valga neanche una semifinale di Europa League? Vado a memoria: l’ultima squadra ad aver percorso i secondi binari più importanti d’Europa con una qualche convinzione di arrivare in fondo è stata la Fiorentina 2007/2008, eliminata ai rigori in semifinale dai Rangers, dopo che i 210 minuti (90 più 90 più i supplementari) si erano conclusi a reti inviolate.
In linea di principio, dovremmo dire che il talento per portare a termine una competizione del genere non ci manca, se solo volessimo impegnarci in quello che, quando ancora si chiama Coppa UEFA, era il nostro terreno di caccia preferito. Gli allenatori dicono che è difficile gestire il doppio impegno; ma la realtà è che, a fronte di una vittoria impossibile, tutti preferiscono ancora lasciar perdere e concentrarsi solo sulle faccende di casa.
Provinciali? Certo. E quasi con orgoglio: le cose basse le lasciamo fare agli altri, proviamo solo quando conta davvero; col risultato di arrivare impreparati, o di scoprirci inadatti.
Così poi bolliamo come “facile” il girone della Juventus, e non andiamo lontani; e se, com’è probabile, il Manchester City di Mancini, fresco campione d’Inghilterra, sembra destinato a uscire da un girone ben più difficile (quello del Borussia, appunto), non c’è da star sereni.