Il boemo sopra Roma
Zeman è grande e Sansonna il suo profeta.
Dopo ‘Zemanlandia‘, e ‘Due o tre cose che so di lui’, documentari poi confluiti in un cofanetto edito da Minimum fax, il regista barese torna sulle tracce del tecnico boemo con “Zeman, un marziano a Roma“, sempre per i tipi della casa editrice di Ponte Milvio.
Questa volta Sansonna si trasferisce in Alto Adige, nel ritiro dei lupacchiotti alla cui guida Zeman è tornato dopo quindici anni passati sulle panchine di mezza Europa. Una favola il cui fine sarà sempre lieto, a prescindere dai risultati dei giallorossi: la serie A ritrova uno dei protagonisti più amati e discussi, artefice di gioco spumeggiante e feroce critico dei guasti del calcio.
Passato per la Gehenna delle serie inferiori, negli anni ritrova una seconda giovinezza ma resta quello di una volta: maschera muta, eppure ipercomunicativa, amore da padre putativo per i suoi talenti e ghigno ineffabile dedicato ai nemici.
Sansonna, con l’arte del cesellatore, in questa maschera ci è entrato ormai da anni. E ne conosce a memoria la semantica, riuscendo a riprodurre la parlata senza articoli, considerati fronzoli da sfrondare; la perentorietà di intenti, scanditi da sentenze e precetti; i tic lessicali, esemplificati dalla cantilena in cui remixa i brani del suo amato Battisti.
Quello che i lettori troveranno è uno Zeman passato ai raggi x, colto nelle passioni musicali (Venditti) e negli scarti di una disciplina ferrea, ma non tanto da impedirgli eccezioni: come quando, istigato da Totti, per scommessa si fa a nuoto tre vasche in apnea. Il rapporto con il Pupone è uno dei capitoli più interessanti, in cui Sansonna contrappone il gelo dell’uomo di Praga ai vezzi da Rugantino del capitano giallorosso, ottenendo la miscela che muove Zeman da anni alle nostre latitudini: il fascino, da parte di uno cresciuto in un regime comunista, metodico fino alla mania, per l’Italia barocca e caciarona, regno delle truffe e del calore, dell’imprevisto che è più prevedibile del previsto.
A una lettura più profonda, ci si rende conto che il periodico stigmatizzare gli scandali calcistici appartenga ad una precisa ossessione del boemo: in una dinamica di attrazione e ripulsa per ciò che è torbido. Ma il pregio del libro è, per una volta, mettere in un angolo le polemiche e il ruolo di Zeman nel nostro sistema calcio: partendo dal ritiro estivo, l’autore ci immerge in una divertentissima teoria di aneddoti, rimandi, ricostruzioni di un ambiente, quello della Roma del nuovo corso dei ‘god father’ stelleestrisce, con il suo cascame di folklore e indotto commerciale, che rende il paesino altoatesino una filiale di Disneyland. Per lo scetticismo di Zeman, la cui sobrietà è nota, più a suo agio con corse e sacchi di sabbia, per tonificare i muscoli dei suoi atleti, in nome di quell’ “efferato sadismo ginnasiarca” di cui fu accusato da Gioan Brera.
Perfetti i passaggi sulla preparazione atletica cui vengono sottoposti i giocatori, snelliti e rinvigoriti dopo un anno di vacuo intrattenimento agli ordini del ‘progettista’ Luis Enrique; al confuso, velleitario “tiki taka” asturiano, il tono marziale dell’allenamento zemaniano suona come un ritorno all’ordine. Mentre grappoli di vamp di mezz’età, “che assecondando facili categorie mentali viene da immaginare come estetiste del Tuscolano”, testimonial del ‘generone’ capitolino che va in vacanza dove la squadra si allena, si sdilinquiscono per i muscoli dei giovani miliardari in mutande, e un palchetto con conduttore strapaesano festeggia la presentazione della squadra in clima tra Festivalbar e sagra della porchetta.
Sansonna precipita i contrasti di queste due settimane, tra echi del passato e aneddotica da trovatore, con precisione chirurgica e stile definitivamente letterario. In una cifra che pesca da Gadda, Bufalino, Manganelli, ma che è ormai sansonniana, una lingua in cui l’arabesco è sensato, il beau geste lessicale sempre funzionale alla resa dell’atmosfera, vuoi epica vuoi grottesca, dell’universo zemaniano: “Il tramonto della val Pusteria è una palese prefigurazione dell’Eden […] la folta distesa di conifere, i fiori multicolori, il verde brillante della prateria. La prova lampante dell’esistenza di Dio, che convive con la sua più beffarda confutazione”, dove De Gregori è messo al servizio di un affresco che sintetizza il delirio di fanatismo, marketing e eterno ritorno dell’imbroglio che è il calcio nel suo lato deteriore. Dove il tecnico boemo si è sempre sentito un alieno, ma che, fuori dalle vesti espiatorie che spesso, comodamente, l’intellighenzia gli ha tentato di cucire addosso, ha continuato ad amare con la nettezza del suo credo: “Questo non è un villaggio turistico”.