Lui, Ibra
Capita a volte di rimanere stupefatti dinanzi a un gol, a una giocata di classe, a un gesto atletico insolito. Capita di restare con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata quando ti accorgi che quello che credevi una mezza cartuccia ti estrae dal cilindro la rete del secolo, o quando un allenatore, per esempio, attua quella mossa tattica che non ti aspettavi (esempio: Mourinho, Eto’o terzino contro il Barcellona; Zeman, Florenzi titolare contro l’Inter. E sono due esempi lontani nel tempo ma vicini nel genere). Non rimani, invece, sbalordito quando colui che oggigiorno può essere considerato uno degli attaccanti più forti al mondo continua a fare il suo sporco lavoro: buttarla in fondo al sacco. Si parla, ovviamente, di lui, Ibra: l’attaccante più amato/odiato d’Italia (e non solo), quello spilungone dalla faccia antipatica ma dai piedi educati, le gambe potenti, la corsa decisa e la classe pura che ovunque vada riesce a essere determinante, incisivo, assolutamente vincente.
Cinque partite, cinque centri da quando è a Parigi: numeri che parlano, anzi, cantano, e sono una voce dolcissima, lirica, morbida, per i tifosi di un Paris Saint-Germain che si stanno pian piano abituando all’idea di dover, gioco forza, far propria quella strategia che qualsiasi squadra abbia avuto Zlatan in rosa ha adottato: palla a lui, e passa la paura (e mi sovviene l’immenso Van Basten: ricordate il “dammi il pallone e corri ad abbracciarmi”?). Contro il Tolosa, ieri sera, l’ennesima dimostrazione della sua naturale capacità di essere un goleador, un bomber che unisce cattiveria a nonchalance, uno di quegli attaccanti in grado di far sembrare semplici anche le cose che per metterle in pratica c’è bisogno di tanto così di talento (e fortuna).
Certo, aggiungesse un pizzico di educazione in più alla sua personalità sarebbe ottimo, ma forse non lo renderebbe più lui, Zlatan-Ibrahimovic, lo spietato svedese dal nome lungo e cattivo che ne disegna con accortezza il carattere, il suo essere, il suo stile. Un cattivo che vale e fa girare soldi nella pazza (no, scusate: folle. Sì, completamente folle) economia calcistica, un protagonista del pallone ma un burattino del mercato, che “Sir” Carmine dalla ridente Angri ha saputo – e saprà – valorizzare e spremere fino alla fine. Quattordici milioni annui per fargli fare gol all’ombra della Tour Eiffel; una rete a partita per far innamorare di sé i suoi nuovi tifosi; un carattere duro, che molte volte ne ridimensiona l’eleganza, vinta dal suo stesso ego che lo costringe spesso a rimanere, al cospetto della folla, “senza applausi o fischi” per dirla alla Guccini; ma anche, e soprattutto, un genio raffinato, una qualità immensa, innata, e – come canterebbe il Liga – “un nome e cognome che forse (rispetto allo stile, ndr) resiste di più”.