Il calcio al tempo della spending review
Lo so, l’ho appena fatto: ho usato un termine inglese (spending review) in un titolo. Voglio dire: in un sito che si vuole italiano, ho usato un termine inglese. Sarebbe stato lo stesso se avessi detto “la revisione della spesa”? In linea di principio, assolutamente sì. In linea pratica, siccome dobbiamo parlare una lingua ibrida tra la nostra e l’inglese, vi sareste chiesti di cosa avrei scritto. (E la cosa peggiore è che di questa ibridazione non siamo quasi mai coscienti.)
Questo per dire che non siamo assolutamente capaci di politiche di conservazione dell’identità, senza però finire nel conservatorismo fine a se stesso. È la seconda volta che lo dico, in pochi giorni. Non mi fa piacere, né ne sono orgoglioso; ma posso farci davvero poco. Siamo figli di una società miope, che guarda sempre e solo all’oggi. Vale nella politica linguistica (perché, forse che ne abbiamo una?), e vale anche nel mondo del pallone.
Credo che vi sia solo una società modello, in tutto il panorama professionistico italiano: e ovviamente parlo dell’Udinese. Un servizio capillare di individuazione di nuovi talenti (quanta fatica per non dire scouting), una struttura consolidata che permette ai giovani di fare tutti i passaggi necessari al lancio (a partire dall’arrivo in Europa, spesso in “parcheggio” presso qualche realtà minore): tutto questo riuscendo a coniugare risultati, gioco e conto in banca.
Anzi: comprandosi altre due realtà. E se l’acquisto del Watford è storia recente, è pur vero che a Granada sono arrivate due promozioni, su su fino alla Liga (che mancava da 35 anni, per gradire). E tutto questo accade a una dirigenza longeva come poche altre: era il 1986 quando i Pozzo hanno cominciato a investire nel calcio a Udine (per darvi un’idea: lo stesso anno in cui Berlusconi si comprò il Milan), e da allora non si sono più fermati. E c’è persino chi dice che la vendita dei migliori giocatori sia tesa all’acquisizione di uno stadio di proprietà: se così fosse, per quanto mi riguarda, tanto di cappello.
Perché il nocciolo della questione è questo qui: abbiamo un campionato che vede partire campioni affermati (Ibrahimović il nome più citato, ma purtroppo non è solo) e campioni in erba (Verratti), sappiamo che l’unico modo per uscire dal circolo vizioso è la programmazione… eppure nessuno è capace di farla. E non siamo neppure messi malissimo, sotto certi aspetti: lo spettacolo della Liga, per quanto mi riguarda, è deprimente come ogni spettacolo che preveda già di sapere che ci sono 18 spettatori e 2 protagonisti. Cosa che da noi non succede ancora, per fortuna.
In tutto ciò, però, rendiamocene conto: in Europa ormai rischiamo grosso, e siamo a rincorrere tutti gli altri. Non è un mistero che, dopo aver perduto la quarta squadra in Champions, anche il terzo posto sia a rischio. Diciamolo chiaro e tondo: sarebbe un disastro, ma forse ci farebbe bene. Per paradosso, potrebbe essere una novità salvifica, capace di consentire a tutto il movimento di capire e fare propria l’idea che nulla ci è dovuto, e che tutto va guadagnato con lungimiranza e programmazione. Con una pazienza che non ci è propria.
La Serie A sta vivendo una cura dimagrante: bene se diventa l’occasione per razionalizzare e ripartire, male se facciamo cassa senza avere idee (altro monito che va ben oltre il calcio). Anzi, lo dico una volta di più: se i colpi di mercato vengono dal Pescara (Immobile al Genoa, Insigne di ritorno a Napoli, più Verratti per cui la Juventus offriva meno della metà del PSG), dovremmo aprire gli occhi e capire che il calcio anzitutto si insegna. Che l’educazione, a tutti i livelli, è la chiave per migliorare gli stili di vita possibili. Altrimenti Insigne rimarrà in Italia solo per due o tre anni. Auguri.