Nouvelle vague all’italiana
Quanti esordienti azzurri, nella sera di Ferragosto? Ben 12. Non pochi: è un’Italia completamente rinnovata. E non tutti questi ragazzi provenivano da squadre particolarmente note nel mondo: vero che Verratti è nella nouvelle vague parigina, ma viene da una stagione in Serie B (Pescara, c’è bisogno di ricordarlo?); lo stesso Destro, oggi alla Roma sotto Zeman, è reduce dal Siena, non proprio questa formazione di caratura europea.
Mi ricordo un caso simile nella pallacanestro, un decennio fa. La generazione dei Carlton Myers & co. aveva mollato, e il campionato sembrava in preda ai giocatori stranieri. Ne è uscito fuori il biennio più importante di sempre: qualificazione agli Europei 2003 attingendo un po’ da tutti, Europei portati avanti con la forza del gruppo: la Francia ci schianta nella fase a gironi, la ritroviamo nella finalina per il terzo posto, che qualificherebbe per le Olimpiadi.
Sembra l’apoteosi degli uomini normali: una squadra con i playmaker tutti acciaccati, che chiede minuti importanti a Lamma (cresciuto in un vivaio importante, ma che fino a due anni prima giocava ancora tra i dilettanti), ed è costretta a riciclare un’ala piccola (Soragna) per portare palla. A Luleå era finita 52-85, a Stoccolma è 69-67 (come in semifinale, avevamo perso di due punti dalla Spagna).
Sembra il lieto fine di una favola meravigliosa, sarà soltanto l’inizio di un viaggio che, ad Atene, ci ha portati all’argento, davanti agli Stati Uniti. In finale, per esempio, molti minuti (ottimi) furono giocati da Rodolfo Rombaldoni, che nella sua squadra di allora aveva spazi comunque ristretti. In altre parole: la Nazionale era diventata anche la vetrina per quei giocatori italiani che non trovavano grande spazio in campionato. Allenatore era Recalcati, che disse chiaramente che era “costretto” a inventarsi dei giocatori, per arrivare a 12, lanciandoli lui al posto dei club. Poi, però, dopo il 2004 c’è stato un crollo.
Ho avuto l’impressione che l’Italia sperimentale vista mercoledì, tutto sommato, fosse un tentativo del genere. Chiaro che ci sono differenze; ma andare a pescare i Peluso, Gabbiadini e compagnia bella mi è sembrato un campanello di allarme forte. Come a dire: l’Italia del futuro, in questo momento, quel futuro ancora non lo vede. Non è alla sua portata. Il gioco è stato bello, coinvolgente, e tutto sommato poteva serenamente finire 2-1 per noi (il più classico dei gol-sbagliato-gol-subito); ma può bastare?
È partito il progetto che dovrà portarci ai Mondiali 2014: in casa degli dèi del calcio, si potrebbe dire. E ci andiamo forti dell’entusiasmo riconquistato con il secondo posto agli Europei. Lo dico forte e chiaro: ho un po’ di paura. Non vorrei che si ripetesse un effetto-Lippi: tornato in sella nel 2008, l’ambiente (specialmente quello giornalistico) era a dir poco entusiasta e ossequioso, disposto a perdonare di tutto a chi, solo due anni prima, ci aveva fatto vincere i Mondiali. Sappiamo com’è andata.
Vero è che Prandelli ha delle stimmate davvero diverse: un gioco propositivo e il coraggio di dare spazio ai giovani, lo abbiamo visto. Ed è anche vero che non ha vinto (ancora, dico io, che ci spero e glielo auguro). Però non posso negare che le aspettative sono molto alte, dopo l’exploit inatteso che ci ha portato fino a Kiev. Ed è anche chiaro che abbiamo visto in campo un’Italia sperimentale, ma io mi tengo stretti i miei timori. Cerchiamo di continuare a volare basso: la strada verso la conferma è lastricata d’insidie. Metti un passo avanti all’altro, e arriverai da qualche parte.