Olimpiadi: cinque cerchi alla testa
Le Olimpiadi sono un coacervo di emozioni — e di retorica, anche, lo so. Non saranno tutte rose e fiori, ma non sarà neanche tutto fango, come quello che troppi, adesso, sparano addosso ad Alex Schwazer, dimentichi del fatto che quattro anni fa, a Pechino, era diventato una specie di eroe nazionale. E dimentichi anche del fatto che lui stesso, per primo, aveva più volte dubitato se continuare, aveva mostrato insofferenza (chiaro: come uno che mostra insofferenza dopo essere diventato campione olimpico e dopo aver riaggiustato anche i record nazionali).
Su di lui dico altre due parole e basta (ci ha già pensato ieri il nostro Alessandro Lelli): e cioè che, a differenza di molti (lo so, si spara sempre sui soliti noti; ma c’è bisogno di ricordare quelli che, di fronte a un giudice, hanno risposto «non ricordo»?), ha ammesso la colpa senza aspettare controanalisi né nulla (forse anche con troppo zelo: sicuri che ha fatto tutto da solo?), e ha soltanto chiesto di essere lasciato in pace. Mentre tutti non vedono l’ora di sputargli addosso. Lo sputo è anonimo: fa male riceverlo, e chi lo dà si sente autorizzato. Probabilmente, chi sputa si sente autorizzato dallo spirito olimpico.
Preferisco pensare ad altro, sinceramente. Preferisco ricordarmi di queste Olimpiadi tristi: Olimpiadi da crisi, queste, e per mille motivi il pensiero corre diretto allo Stadio Panathinaiko, dove Stefano Baldini vinse la Maratona per antonomasia (Maratona-Atene, 42 chilometri e spiccioli): lo vedete nella foto sopra. Era il 29 agosto 2004: si chiudeva la prova conclusiva delle olimpiadi greche: parere personale, le più belle che io abbia visto (con un pensiero affettuoso agli australiani, quattro anni prima, e a Juan Antonio Samaranch Torelló, che in pochi giorni perse tutta la sua vita fino ad allora: lasciava il CIO dopo oltre vent’anni, ed era divenuto vedovo il giorno dopo la cerimonia di apertura).
Già il nome mi dice tanto: Stadio Panathinaiko, in greco Παναθηναϊκό Στάδιο: stadio di tutti gli ateniesi. Ma è davvero così? Perché mentre si vanno chiudendo le olimpiadi della crisi (posto che, a questo ritmo, non sia così tra quattro anni), sappiamo anche che quello stadio è fermo, vuoto, lasciato a se stesso. Un ricordo delle uniche olimpiadi con due premi: la medaglia, e la corona di alloro. Sono passati otto anni, sembra un’eternità.
Come è passata un’eternità da quando Paul McCartney ha cominciato a cantare: e mi sono stupito, sinceramente, che abbia accettato di chiudere la cerimonia di apertura. Icona british, certo, ma sfiatato come (quasi) ogni settantenne, perennemente sul bilico: forzare per arrivare alla nota, stonicchiando qua e là. Uno spettacolo che mi ha fatto pensare: ma neanche per le Olimpiadi siamo in grado di pensare qualcosa di nuovo? Forse è proprio vero che queste Olimpiadi, guadagnate dagli sgoccioli finali dell’esperimento neolaburista, vengono gestite adesso da chi se le è quasi trovate sul collo: un primo ministro di un governo di coalizione (in Inghilterra!), con un sindaco di Londra ammerigano.
Le Olimpiadi le ricordo bene da Atlanta 1996 in poi: ogni volta c’è stata qualche emozione. Spesso legate alla scherma, che quest’anno ci ha regalato soddisfazioni non del tutto giustificate: 4 medaglie vengono dalle stesse 3 atlete (più una riserva), e questo per un verso è segno dell’eccellenza della scuola del fioretto, per l’altro però è anche la spia su tutto il resto: nei singoli fatichiamo, diciamocelo pure. Primi nel medagliere delle armi di punta e di taglio, vero; ma non possiamo cantare vittoria, perché il futuro potrebbe non essere più nostro.
Dovremmo investire di più, ma è un discorso che, dicono, non si può fare. Vale anche per gli altri sport. Finché non investiremo di più, continueremo a essere i soliti: forti nella prima settimana, deboli nella seconda. E con un medagliere che va assottigliandosi: benissimo ad Atlanta (sesti: 13 ori, 10 argenti e 12 bronzi, per 35 medaglie), settimi a Sydney (13-8-13: 34), ottavi ad Atene (10-11-11: 32), noni a Pechino (8-9-10: 27), e di là dalla manica non faremo di meglio (scrivo mentre siamo a sole 19 medaglie: siamo tornati indietro di 20 anni). Cominciamo a pensarci.
Dicevo delle emozioni: di Londra non ricordo momenti incredibili, forse anche perché la temperie è quella che è. Per dire: a Pechino ricordo non so più quale pesista (forse Andrei Rybakou) che aveva appena battuto tutti il record di strappo, e per vincere l’oro avrebbe dovuto sollevare qualcosa come 214 chili: non lo aveva mai fatto prima. Arrivò davanti al bilanciere, lo guardò, si fermò un attimo… poi scosse la testa, sorrise e andò a complimentarsi col suo avversario. La forza di riconoscere i propri limiti, di non volersi prostituire al risultato. Di accettare il verdetto scritto nelle cose. Signorilmente, con spirito sportivo — con spirito olimpico, dovrei dire se usassi la retorica di questi giorni.
Le idee nuove, o almeno il genio assoluto del vecchio: ci vorrebbe un colpo d’ala. L’ho detto in privato, lo ribadisco in pubblico: se per queste Olimpiadi fossero riusciti a fare la reunion dei Pink Floyd, sarebbe stato un regalo davvero incredibile. Non succederà, ma io ci spero ancora per domenica.
Poscritto. Il mio medagliere personale, nel momento in cui scrivo, dice che al terzo posto, nel medagliere delle XXX Olimpiadi dell’era moderna, c’è la Cina (80 medaglie: 37-24-19). Al secondo posto gli Stati Uniti, con 90 medaglie (39-25-26). Al primo posto l’Unione Europea, con 245 medaglie: 77 ori, 84 argenti e altrettanti bronzi, col contributo di 24 paesi (rimangono fuori solo Austria, Lussemburgo e Malta).