Partiamo da queste dichiarazioni a firma Adriano Galliani: “Spiego precisamente: in crisi non è il calcio italiano, ma lo è il Paese. Il segmento calcio va bene e sta crescendo il fatturato come è cresciuto quello del Milan. Ma il problema è legato agli azionisti e alle difficoltà delle loro aziende, che non permettono più a loro di mettere i soldi che mettevano anni fa. Nuovi soci nel Milan? Al momento non sono previsti. Il calcio italiano può avere vita lunga quando arriverà al pareggio di bilancio ma per arrivarci servono sacrifici durissimi”.
Ecco appunto, pareggio di bilancio, un’espressione che sa tanto di politica economica e che ormai è entrata prepotentemente nel dizionario del calcio, anche se in fondo c’è sempre stata, visto che spesso ci si dimentica che le società sono vere e proprie aziende, con tutte le conseguenze che ne deriva. Ottenere un equilibrio tra entrate ed uscite sembra essere diventato giustamente uno dei crismi degli ultimi anni di casa Milan, con un Galliani sempre più in versione Mario Monti, che parla di sacrifici, di vendite forzate, di tassazioni estere agevolate, di spendig review interna. Risultato: in casa rossonera si vendono i pezzi migliori per far quadrare il bilancio.
Un’operazione che fu inaugurata dalla cessione di Schevchenko qualche anno or sono, seguita da una sorta di sommossa popolare contro la cessione di uno degli idoli della curva milanista; qualche mese più tardi fu la volta di Kakà, sacrificato, a detta dell’amministratore delegato rossonero, ancora per questioni economiche. Anche in questo caso, sommosse di tifosi contro la decisione della dirigenza meneghina, anche se da un lato si è cominciato a capire che per il bene della squadra forse era meglio così; tra parentesi: a ben vedere le prestazioni sportive londinesi e madrilene dei due, l’economo Galliani male non c’ha visto, incassando due belle plusvalenze e rifilando agli amici Abramovich e Perez due giocatori lontani parenti di quelli visti durante il periodo d’oro milanista.
Ora, non nascondiamoci: rinunciare a un campione per il bene dell’azienda-squadra deve essere un dictat, un imperativo, almeno in Italia dove non esistono ancora quei presupposti economico-culturali adatti al “mantenimento” di campionissimi per tot anni. “Mantenimento“, sì, perché questi big del calcio moderno possono essere paragonati a fuoriserie, vetture di lusso che chi può permetterselo acquista con spavalderia e invidia altrui, ma che dopo un paio di anni vuole scaricare perché i costi di gestione sono troppo elevati. Prendi Ibrahimovic: pagato a suon di milioni di euro, ogni anno ne costa alle casse rossonere altrettanti.
Certo, nessuno osi mettere in dubbio l’importanza in campo dello svedesone, ma se si pensa in economichese due anni sono più che sufficienti per dissanguare il bilancio rossonero. Abbiamo capito che come nei casi sopracitati, questo sarà uno di quegli anni in cui il Milan sacrificherà uno dei suoi campioni: due sono i candidati, quello forte forte che gioca in difesa e l’altro appena nominato. Ecco, vestendoci per un attimo da chiromante ed immaginando la squadra che verrà noi scegliamo di tenere il primo. Thiago Silva deve essere la prima opzione, sempre e su tutti, perché non si può rinunciare al più bravo al mondo nel suo ruolo, preferendo di mantenere una fuoriserie capricciosa e dall’età superiore.
A maggior ragione ora che, dopo il suo rinnovo contrattuale, il brasiliano ha visti lievitare il suo ingaggio, vendere uno dei due appare come una necessità. L’idea comune è che a Milanello tutti vorrebbero cedere lo svedese che, però, fatica ad avere offerte visto l’elevato ingaggio percepito. Bisognerà sperare nel solito Manchester City o in qualche offerta irrinunciabile proveniente da qualche altro lido, con la consapevolezza però che se qualcuno deve essere ceduto quello dovrà essere Ibrahimovic; in caso contrario, o addirittura nella peggiore delle ipotesi che corrisponde ad una cessione di entrambi, sarà difficile continuare a credere in un Milan voglioso di riscatto.