Qualcuno dirà che è colpa della globalizzazione, di quel villaggio globale di mcluhaniana memoria che azzera i confini geografici e che rende tutto il mondo un variegato meltin pot dove antiche certezze vengono inesorabilmente a cadere; altri argomenteranno che, in fondo, è la crisi economica che spinge anche le società di calcio a prendere determinate decisioni per far quadrare i bilanci; altri ancora diranno che è tutta colpa della bigotta mentalità pallonara italiana, abituata a non valorizzare i propri giovani e lasciarli partire in un battito di ciglia, badando più al profitto che all’aspetto meramente calcistico dei talenti di casa nostra.
Che sia colpa dell’una o dell’altra ipotesi, diciamo pure che la Seria A italiana si sta lentamente trasformando in un grande supermarket d’elite, in cui chi arriva compra a suon di milioni o petroldollari, neologismo che va tanto di modo nell’ultimo periodo. In realtà, la fuga dei talenti, calcisticamente parlando, non nasce nell’ultimo periodo: sono già diversi anni che i confini italici sono preda di razzie estere, moderni predoni che giungono nella penisola armati di valigette cariche di contante e assegni a nove zeri che fanno tremare i polsi a dirigenti e giocatori, attirati da stipendi extra lusso e chi se ne frega si va a giocare a Machačkala o a Pechino.
Gli ultimi due casi eclatanti sono delle ultimissime ore: Marco Verratti al Paris Saint Germain, Davide Astori verso Mosca, destinazione Spartak. Altri due giovanissimi che dicono arrivederci a quello che un tempo era definito da tutti come il campionato più bello del mondo e che oggi di bello ha in realtà ben poco. Fanno tutto facile questi Paperoni del terzo millennio: quanto costa il giocatore? Dieci milioni? Eccone undici e tante grazie! Qualcuno si domanderà: ma il presidente dell’UEFA Michel Platini non aveva fatto del così detto Fair Play finanziario uno dei suoi cavalli di battaglia per sconfiggere le disparità economiche tra i club europei? Forse se lo sarà dimenticato, o forse è troppo impegnato a studiare come rispondere tono su tono all’antagonista Blatter, in una sorta di “guerra delle poltrone” per il controllo globale del calcio.
Comunque la colpa è anche nostra, dei dirigenti di casa nostra che non credono fin da subito ai talenti che i settori giovanili delle squadre italiani sono ancora in grado di produrre, checché se ne dica. Eppure, la Serie A malinconicamente si sta trasformando in una succursale del calcio che conta, in quello che per anni hanno rappresentato, e che in parte ancora rappresentano, nazioni come il Belgio, l’Olanda, il Portogallo, scuole di calcio preparatorie al calcio dei grandi, della Spagna, dell’Inghilterra e ora anche di Russia, Germania, Francia. Non vogliamo qui dare suggerimenti su come intervenire per bloccare quest’emorragia, non se saremmo capaci; vogliamo invece alzare un po’ la voce su quello che sta diventando un’abitudinaria conta delle partenze, uno spogliarsi di valori. Venghino Signori, venghino… poi però non lamentiamoci se ad alzare coppe e coppette internazionali sono sempre gli altri, gli stranieri.