Italia, e ora?

Nel calcio spesso vincono i più forti; qualche volta vincono i più bravi, ed è spesso la nostra speranza. È stata la bussola del Chelsea di Di Matteo, per fare un esempio: sappiamo come è andata a finire. Ieri non ci è bastato il cuore, le geometrie di Pirlo, la potenza di Balotelli, la classe di Cassano. Non riusciamo a fare gol, non siamo stati capaci di chiudere la partita. Un passo in avanti, comunque, c’è stato: abbiamo retto a lungo, senza farci riprendere dopo due azioni.

Ricordiamoci anzitutto una cosa: che per vincere un Europeo o un Mondiale non occorre essere i più forti: basta essere i più forti in quel mese, come insegnano la Danimarca del 1992 (spensierata, ripescata direttamente dalle vacanze) e la Grecia del 2004 (arcigna e bendisposta per un calcio tanto sparagnino quanto efficace). Ci vogliono le idee, la condizione fisica, un po’ di talento. Non voglio pensare che non li abbiamo, in senso assoluto; anche se a volte, appunto, non basta.

Domenica abbiamo visto Antonio “Totò” Di Natale entrare e segnare: un uomo, vero, che si è tolto una delle ultime soddisfazioni internazionali della sua carriera. E anche ieri abbiamo visto Mario Balotelli, che forse un giorno sarà un uomo, venire sostituito: perché il suo estro (quello che ha regalato al Manchester City uno scudetto, con un assist al 94′) ci serve come il pane, e, se non lo mette al servizio della squadra, per noi si spegne la luce.

Prandelli ha preso in mano un manipolo di ragazzi scoordinati e usciti malissimo da una missione che non doveva nascere (è noto: per me Donadoni, dopo gli Europei2008, andava confermato senza neanche pensarci) e ha costruito un gruppo con l’idea di giocare un calcio più propositivo, di giocare con il sorriso, divertendo e divertendosi. La cosa buona di queste prime due partite è che, dopo una marcia di avvicinamento inquietante, l’identità e la mano del CT si è vista, nel bene e nel male.

Poi, vero, si sono viste anche alcune alchimie particolari: De Rossi in difesa per l’infortunato Barzagli (Ogbonna proprio non è all’altezza?), l’insistenza su un Thiago Motta che non appare in condizione, è lento e farraginoso. Con l’incognita Montolivo, bocciato dopo la Russia e riesumato ieri, e con un Nocerino ancora da provare davvero. Eppure, più a folate che con ordine, a tratti attacchiamo con convinzione. Poi caliamo fisicamente, e ieri abbiamo lasciato lungamente l’iniziativa agli croati.

Detto questo, Daniele De Rossi merita comunque una menzione d’onore: veramente un giocatore a tutto tondo. Capace sotto la porta altrui da quando era un ragazzino (inizialmente si trattava di un attaccante), perfetto nell’impostare il gioco (grazie al lavoro negli ultimi anni delle giovanili, lanciato presto in prima squadra con risultati subito importanti), adesso anche capace di difendere la propria porta, chiamare i tempi e impostare da dietro: nell’emergenza, abbiamo un uomo-ovunque. Campione del Mondo sei anni fa (alla veneranda età di 23 anni, quando ormai in campo dimostrava almeno cinque anni più di quanto non dicesse l’anagrafe), insieme a Pirlo è il perno di questa nazionale.

Un’altra nota va detta su Balotelli che viene sostituito anche ieri: liberissimo io di sbagliarmi, ma mi viene facile credere che il suo sguardo basso e arrabbiato non fosse affatto diretto a Prandelli, che lo chiamava fuori, quanto a se stesso, per non essere riuscito a sfruttare le occasioni che ha avuto, per non avere lasciato la squadra in una situazione migliore. Perché ha preso le iniziative giuste, ma ha sempre riflettuto troppo. È il suo paradosso: talento puro, va educato, ma senza perdere in esplosività. Anche così vanno interpretati i suoi ritardi nel gestire il pallone.

Sono competizioni strane, queste: pochissimo tempo per preparare i giochi (men che meno per noi, visto che a Prandelli hanno negato anche gli stage), ci si affida ad alcuni gruppi chiave (per esempio, la Russia va a reparti: difesa CSKA, mediana Zenit) e si imposta il gioco di conseguenza. E spesso a decidere sono proprio le palle inattive, come il gol di Pirlo ha dimostrato. Noi siamo il blocco-Juve, con alcuni innesti di qualità (De Rossi) o necessità (Cassano).

Dopo il pareggio iniziale, dovevamo rimanere attenti a non esaltarci: un Europeo dura non più di sei partite, e a cadere si fa presto. Concentràti, a testa bassa verso l’obbiettivo. A dispetto della vigilia, abbiamo fornito due prestazioni solide, e alzi la mano chi ne era sicuro. Se adesso siamo vicini all’eliminazione, molta colpa è del calendario: se avessimo affrontato subito l’Irlanda, per dire, adesso sarebbe una storia diversa. Ieri andava vinta, l’abbiamo pareggiata solo per un errore di Chiellini: il difensore più affidabile.

Potrebbe aspettarci un destino già visto: era il 2004, in Portogallo, c’era già un Cassano che ci teneva da morire, e che segnò il gol decisivo alla Bulgaria: purtroppo ininfluente. Era l’Italia di Trapattoni (ancora per poco), forse qualcuno si ricorderà le lacrime del talento di Bari vecchia. Fummo “biscottati” da Danimarca e Svezia, che con un pareggio 2-2 si sarebbero assicurate il passaggio del turno ai nostri danni in ogni caso. Erano due nazionali che potevano farlo, forti ma non troppo, avevano solo da guadagnarci.

Ma la Spagna, realisticamente, può pensare una cosa del genere? Anche se fosse, rischierebbe di incontrarci soltanto in finale; e difficilmente anche la Croazia si isserebbe laggiù. Calcolatrice alla mano, presumendo una vittoria dell’Italia: con un 2-2, vanno su Spagna e Croazia a braccetto; con l’1-1 è un terno al lotto (e dobbiamo vincere molto largo contro il Trap, dandogli un altro dispiacere, dopo quelli patiti sulla panchina azzurra); con lo 0-0 siamo dentro e non voglio pensarci. Se vince una delle due, l’altra è eliminata: perché si pensa sempre che vincere spetti alla Spagna, ma non si sa mai.

L’Irlanda è fuori matematicamente, ma non per questo ci regalerà nulla: con una vittoria chiuderebbe terza nel girone, e in ogni caso sarebbe una vittoria di prestigio. E la domanda da porsi, comunque, è a rovescio: inutile chiederci se ci serviranno il biscotto, dovremmo piuttosto chiederci se, a parti rovesciate, noi faremmo una cosa del genere. Buffon, per difendere il calcio italiano da Scommessopoli, lo ha detto chiaramente: sì, meglio due feriti che un morto. (Poi viene in soccorso il nostro Francesco Davide Scafà che mi rammenta il Buffon del 2004: «Ma se quelli fanno 2-2 veramente, altro che ufficio inchieste: direttamente le teste di cuoio in campo, ci vogliono».) Ma se la risposta è sì, vuol dire che, ove lo facessero, ce lo meriteremmo. Farebbe male, ma difficile lamentarsene.

Detto questo, quindi, possiamo solo sperare nella classe della Spagna, e sul fatto che si giochi una partita vera: che Bilić voglia andarsene con uno scalpo eccellente, o che Del Bosque non cerchi di risparmiarsi (sono solo sei partite, l’abbiamo detto) e voglia da subito far capire chi comanda. Anche se, a ben pensarci, ora che Scommessopoli è stata di nuovo soppiantata dalla cronaca, sarebbe un contrappasso notevole vedere Buffon uscire grazie a una di quelle partite che lui ha indicato come “normali”, figlie di una logica che si rivela a lui condivisibile solo quando fa comodo.

E questa constatazione mi porta ad affrontare brevemente l’ultimo argomento attaccato dalla domanda del titolo: e ora? Perché Scommessopoli, per quanto sopita, c’è ancora, e ci saranno le sentenze, i campionati che verranno stravolti e i calendari da fare e rifare e disfare, e ormai sappiamo come funziona. Ma se c’è un codice etico, se il ciclo con Prandelli è davvero diverso (e se questa è davvero la nazionale come la vuole lui, non come la vuole lo scandalo Scommessopoli), si vada dritti al punto. Chi deve pagare, paghi (potremmo ironizzare: chi deve riscuotere, riscuota). E si cominci a pensare che certi fatti nulla hanno a che vedere con lo sport: drogare i propri compagni (il caso-Paoloni docet) o legarsi a gruppi eversivi sono fatti da codice penale, ma non solo: non basta la squalifica, quanto lunga sia. Chi si chiama fuori dallo sport, deve rimanere fuori. A prescindere dal risultato di Euro2012.