Home » La costante di Zeman

Zdeněk Zeman è un pezzo importante del nostro movimento calcistico, e da sempre ha tutta la mia simpatia: e questo accade proprio nella misura in cui non la cerca. Ovverosia: non è uno che parla per compiacere qualcuno; piuttosto si esprime (smozzicando monosillabi) quando e se ha un concetto chiaro da sviscerare, a prescidere da quella che può esserne l’eventuale accoglienza. Conosciamo l’uomo: qualcuno lo detesterà come un attaccabrighe smanioso di apparire, io invece lo seguirei in capo al mondo (perché trovo comunque motivate le sue uscite, peraltro non troppo comuni).

È un personaggio scomodo, Zeman, perché ha delle idee molto chiare (e non di rado di difficile realizzazione) e non si nasconde dietro nessuna paura, come si confà a chi sia veramente convinto di ciò che pensa. E ciò che pensa, Zeman, poi lo dice. «Se è per parlare, io sono abituato a ascoltare»: così ha esordito ospite da Fabio Fazio nell’autunno scorso; in quella sede, oltretutto, non si è fatto problemi di dire che non aveva ancora visto l’ultimo documentario su di sé (Giuseppe Sansonna, Il ritorno di Zeman, minumum fax), laddove molti altri avrebbero annuito, spiegato e parlato sul nulla, solo per non perdere il punto.

Dicono di lui: «Io penso che Zeman è un… vaffanculo» (testuale: Alexi Lalas, ve lo ricordate?), «Di Zeman sapevo poco o nulla, quando ero in ritiro con la prima squadra dell’Atalanta e mi hanno detto che andavo nel Foggia, tutti mi prendevano in giro, nel senso che sono pazzo, vado a lavorare da Zeman che fa lavorare molto… In effetti fa lavorare molto, però poi i risultati si vedono» (Moussa Koné), «Non mi sono mai divertito così tanto in carriera» (Emmanuel Cascione), «In allenamento dovevi fare dieci chilometri, con l’ultimo che lui chiamava quello “del carattere”. Ma tutto questo lavoro aveva uno scopo e tu, da giocatore, lo capivi […]. Soffrivi e soffrivi, ma poi quando finalmente la squadra riusciva a giocare come lui insegnava, beh, allora, era un piacere. E ti divertivi. Il suo calcio è uno sballo, se fai la punta» (Beppe Signori), «Tu sei unico ed inimitabile, semplicemente tu sei il calcio» (Francesco Totti). Poi c’è la mia preferita: «Quella faccia segnata, il ciuffo floscio e la sigaretta sempre in bocca mi fa pensare al pescatore della canzone di De Andrè, quello con la ruga che sembrava un sorriso» (Simone Romagnoli).

Prima tra le sue caratteristiche, una preparazione fisica ferrea, a suon di gradoni e chilometri di corsa, che porta le sue squadre a partire sparate per poi attraversare un inverno complesso cui segue una primavera esplosiva; tutto ciò lo rende inadatto a subentrare a stagione in corso, perché occorre del tempo per digerire i suoi metodi e i suoi schemi. Quegli schemi per i quali sceglie giocatori non sempre noti, così da risuscitare la carriera di un portiere come Anania (scuola Inter, aveva conosciuto Zeman nell’Avellino e nel Lecce, ed era finito in Seconda divisione, nella Pro Patria) e di istruirlo sul più classico dei rilanci: lungo per l’ala, Insigne si allarga sulla sinistra, cross al centro per l’attaccante di turno per capovolgere immediatamente il gioco (come in quel di Empoli per il gol di Maniero: guardare dopo due minuti e venti secondi).

Seconda caratteristica peculiare: pretende di essere seguito e che tutti rispettino le regole: fatto questo, si è libero di volergli bene. Inflessibile con chi sgarra, è rispettato da tutti; e con le sue parole scomode potrebbe anche usufruire di una specie di effetto-Mourinho (allenatore che a lui non piace): con tutti i distingui del caso (il portoghese è capace di scatenare guerre mediatiche dal nulla, Zeman di solito ha solidi motivi per pensare ciò che dice), è capace di fare scudo al suo gruppo.

Ma la caratteristica principale della sua carriera è che non si capisce se a impedirgli di vincere ad alto livello sia stato il suo integralismo tattico («Modulo e sistemi di allenamento non li cambierò mai. Per coprire il campo non esiste un modulo migliore del 4-3-3», dichiarò al ritorno a Lecce) oppure il suo ingaggiare lotte contro i palazzi del potere calcistico; o, più probabilmente, tutte e due le cose (con la prima, a mio avviso, che conta di più). La sua carriera ha conosciuto più fallimenti che successi, specie negli ultimi anni (in Turchia, al Fenerbahçe, nel 2000; in Serbia, alla Stella Rossa, nel 2009; a Napoli, a Brescia, al ritorno a Lecce), eppure non si è mai scomposto («non bisogna mai dimenticare che è [il calcio] un gioco»).

Tantissimi i giocatori lanciati da lui. Un elenco cronologico e colpevolmente parziale: Schillaci, Di Biagio, Baiano, Signori, Rambaudi, Nedvěd, Tommasi, Candela, Di Francesco, Kutuzaŭ (meglio conosciuto come Kutuzov), Vučinić, Nocerino, fino a Sau e Insigne (un anno fa a Foggia) e agli attuali Capuano, Verratti, Immobile e compagnia bella. Segni particolari: prende un giovane e lo plasma, gli insegna i movimenti del suo modulo e il mestiere del calcio (Verratti à la Pirlo, giusto per dire l’ultimo caso), così si arriva al paradosso di un Ciro Ferrara, CT dell’Under21, che di Zeman dice a denti stretti che «nessuno lavora come lui sui giovani», dopo aver dovuto impostare la sua rappresentativa proprio sulle rivelazioni pescaresi. Per dare un’idea di quanto eccezionale sia stata questa stagione, mi basta ricordare che nelle due vittorie in trasferta a Padova (6-0) e Gubbio (2-0), il suo Pescara è uscito tra gli applausi dei tifosi della squadra… di casa!

Esonerato dalla Lazio, è arrivato alla Roma nell’estate 1997, prendendo in mano una squadra che si era salvata solo a 4 giornate dal termine: la porterà al quarto posto nel 1998, e al quinto un anno dopo, per venire sostituito poi da Fabio Capello: ubi maior, minor cessat, si potrebbe dire. Nell’occasione, si lasciano bene: «Io non ho divorziato da Sensi, è lui che ha divorziato da me», dirà il boemo, lasciando intendere che per lui la Roma sarà sempre qualcosa di speciale. E ora dovrebbe tornare a essere il suo laboratorio fatto di giovani: i primi nomi fatti vanno da Ogbonna (con Cairo che in B chiedeva 15 milioni, e ora che è promosso in A e andrà agli Europei difficilmente ne vorrà meno di 20) a Destro (da risolvere la comproprietà tra Genoa e Siena, con l’incognita Scommessopoli in agguato), e a mio modesto avviso tra i terzini (fondamentali nelle sovrapposizioni) potrebbe presto spuntare il nome dell’ex interista Santon.

E naturalmente si parla anche di Verratti: pupillo del boemo, ha però le seguenti difficoltà: ha dichiarato di sognare la Juventus, e il Pescara non lo vuole cedere per meno di 12 milioni, tenendoselo pure ancora per una stagione. Ma il futuro sembra suo: prevedibilmente tagliato dalla rosa della Nazionale maggiore, è solo questione di tempo perché diventi centrale nel progetto di Prandelli, che nel frattempo ne ha “solo” approfittato per fargli assaggiare il clima. E immagino i tifosi romanisti, già entusiasti di riavere Zeman in panchina, diventare euforici pensando a un centrocampo composto da De Rossi, Marquinho, Pjanic e Verratti, senza dimenticare anche Viviani.

Quindi: Zeman sarà quello giusto per il dopo Luis Enrique? Non sarà che stiamo spingendo troppo oltre quel progetto? I vari “ragazzini” daranno retta a lui (dove Luis Enrique non dava l’impressione di avere sempre polso)? Nessuno può saperlo. Quello che sembra ovvio è che con lui non dovrebbero sorgere problemi con i senatori dello spogliatoio: Totti è esploso sotto la sua guida, e sappiamo cosa pensi del boemo, il quale ricambia dicendo che i migliori cinque giocatori italiani sono «Totti, Totti, Totti, Totti e Totti». E anche Osvaldo potrebbe venire rilanciato da Zeman, che lo ha già avuto in quel di Lecce.

In inverno, e quindi del tutto disinteressato, Zeman ha avuto anche buone parole per l’attuale progetto romanista, auspicando che gli sia concesso tempo; e sembra proprio che quel tempo sarà lui a gestirlo. Potrebbe essere in grado di mettere in riga la piazza romana, se riuscirà a incanalare nel modo giusto il tifo, entusiasmando col gioco, con il lancio di nuovi giocatori. Personalmente, se devo dire la mia, speravo che rimanesse a Pescara, portando a maturazione i suoi gioielli; e anche riconoscendo che la chiamata della Roma era di quelle difficili da rifiutare, rimango scettico sul ritorno di Zeman, sì. Perché ha idee forti e forse la Roma dell’anno scorso non ha il gruppo migliore per il suo calcio (non è facile gestire Lamela, Bojan e simili: perché sono giovanissimi, ma si sentono già stelle). Io gli auguro di farcela, di farci divertire, e non sarei mai tanto felice di sbagliarmi. Perché, dopotutto, «Il risultato è casuale, la prestazione no» (cit.).