‘Calcio sotto ricatto’, ‘Violenza inaccettabile‘, ‘Calcio in mano ai violenti’ ecc ecc. Questo avremmo letto sulle prime pagine dei giornali se quanto successo ieri al Friuli di Udine fosse stato commesso da qualche decina di ultras di una, o di entrambe, le due squadre in campo. A picchiarsi, spintonarsi e urlarsi addosso i peggiori insulti sono stati invece giocatori e dirigenti pagati fior di milioni e allora l’indignazione appare molto meno evidente e la violenza scompare o quasi dagli schermi e dalle pagine dei quotidiano che tendono a giustificare comportamenti ritenuti inaccettabili se accaduti al di là del campo di gioco.
Anche questa è l’Italia del pallone dove ai protagonisti del circo tutto viene giustificato – dalle scommesse ai pugni sul campo -, mentre a chi porta avanti la propria passione con fatica tutto viene fatto pagare in maniera sempre più pesante, quasi a farne il capro espiatorio di tutti i mali di un calcio malato sempre più nel profondo, fra scommessi illecite, bilanci taroccati, doping e dirigenti interdetti, ma sempre al loro posto. Per loro esiste sempre la ‘presunzione d’innocenza’ o ‘la trance agonistica’ come giustificazione per non emettere condanne arbitrarie come accade per altri protagonisti del nostro calcio.
La trance agonistica non può e non deve essere la giustificazione per le scene viste ieri sul campo del Friuli dove una squadra – la Lazio – si ferma sentendo un fischio che arriva dagli spalti e poi reagisce in maniera violenta e scomposta alla decisione dell’arbitro di convalidare il gol di Pereyra segnato quando molti credevano, erratamente, che il gioco fosse fermo. Non si possono giustificare gli spintoni, gli insulti i calci e le manate di giocatori e dirigenti nei confronti dell’arbitro o degli avversari, come non si può giustificare l’invasione di campo di chi seduto in tribuna per tutta la gara decide di scendere in campo per farsi giustizia personale.
Non si può, sopratutto, alla luce del tam-tam mediatico di una settimana fa quando gli ultras del Genoa vennero etichettati come violenti, delinquenti, persone da chiudere in gabbia per il resto della loro vita per aver manifestato – senza che vi fosse violenza e che volassero schiaffi, vale ricordarlo – il proprio amore per una maglia che viene spesso infangata da chi dovrebbe onorarla e rispettarla ed è pagato profumatamente per farlo.
Al massimo i dirigenti e i giocatori della Lazio subiranno qualche ammenda e qualche giornata di squalifica, o al massimo un’interdizione dal ruolo per qualche mese, che comunque non gli impedirà di seguire la squadra e di fare il proprio mestiere. A nessuno di loro la Digos e la polizia busserà di notte per portarli in Questura per l’identificazione, l’arresto e l’emissione del DASPO (Divieto di assistere alle manifestazioni sportive) tenendoli lontani dai campi per 1, 3, 5 anni con l’obbligo di firmare ogni domenica. Quel provvedimento – al limite della costituzionalità ed emesso senza processo – vale solo per i “cattivi” per antonomasia, gli ultras, non certo per chi dirige e fa parte organica di un calcio i cui mali sono tutti interni e non esterni come buona parte della stampa e delle tv vorrebbe far credere.