Se c’è una cosa che non scorderò mai è la mia emozione durante il commiato di Paolo Maldini da San Siro. Era il 24 maggio 2009, un Milan – Roma terminato tre a due per i giallorossi; il risultato contava abbastanza relativamente per entrambe le compagini. Mi inorgogliva il fatto di esserci, seppur attraverso una televisione e da tifoso avversario, romanista fino al midollo come sono sempre stato e come sempre sarò. Tifoso sì, ma mai antisportivo o sleale. Quando si tratta di “eroi” come Maldini non esiste fede o pseudo tale che tenga: screditare mostri sacri è come screditare il calcio intero.Ossia la passione per la quale trepidiamo come insensati fanciulli, la molla da cui derivano gran parte delle nostre manifestazioni sentimentali e virili. In altre parole: lo specchio della nostra personalità.
Ritornando a quell’afoso pomeriggio di fine maggio, e al fischio conclusivo di una sfida comunque avvincente, conservo le sensazioni vissute attimo per attimo durante il fatidico momento. Paolo Maldini comincia il giro dello stadio, raccoglie l’amore del popolo rossonero e probabilmente volge il pensiero all’inizio del suo percorso. Da ogni spicchio di San Siro piovono applausi: mi alzo in piedi dalla sedia di casa e immergo la mia anima in quell’oceano di fedeli. Batto le mani e mi commuovo, mi sento fortunato e il viso si bagna di dolci lacrime. Ad un tratto l’ex capitano azzurro cambia completamente espressione sul volto: un branco di idioti sventola la maglia di Baresi e fischia. Colgo la tristezza di un uomo tradito quando ormai vedeva solo luce intorno a sé; divento rabbioso e mi viene quasi da calpestare l’innocente televisore. Lo smarrimento temporaneo è interrotto da una costatazione, un lampo di orgoglio infinito: noi tifosi della Roma siamo migliori. Anzi, i migliori! Quando lui ci saluterà, noi lo cospargeremo di amore e riconoscenza.
Poi succede che proprio la “Scala del calcio” sia il teatro di una nuova clamorosa ingiustizia, quasi che gli dei abbiano consacrato come luogo del delitto una base tanto prestigiosa. La più prestigiosa. Lui, il nostro lui, eccede in un preziosismo fatale ai fini del risultato: una parte della sua gente, o che almeno fino a quel momento si era etichettata come tale, sembra quasi voler mettere in discussione una grandezza conquistata dopo venti lunghissimi anni. Tutto per una semplice e sciocca partita. Noi che ci vantavamo di una fede incrollabile, noi che colonizzammo il Bentegodi esibendo lo splendido striscione “Chi tifa Roma non perde mai”, noi che per lei rischiamo l’infarto e perdiamo il respiro. Credere nella solita spiegazione romana dei detrattori pagati per seminare malumore? Mi rifiuto. Fosse solo per dare un senso a questo editoriale, partorito dal profondo del cuore e velato di una pungente amarezza.
Lui che è rimasto il ragazzo timido e introverso dell’adolescenza ne starà soffrendo, ne sono sicuro. Saprà abbattere il nuovo ostacolo, come ha sempre fatto nell’arco della sua storia, risorgerà ancora una volta e metterà tutti d’accordo. Il carro dei vincitori sarà gremito: lui non rifiuterà nessuno. Lui che si è legato a due colori per l’eternità, ha domato il cervello con i forti impulsi del cuore ed è stato innalzato a simbolo della città più importante al mondo. Lui che, per carità, non ha solo dato ma ha anche ricevuto. Lui che, però, non ha mai anteposto il denaro alla passione: se si rifiutano venti milioni per guadagnarne sei, il quesito non si pone minimamente. Sei milioni non sono da buttare, ma quale santo non li accoglierebbe a braccia aperte? Se volete insultarlo, cari professoroni, scegliete pure una pista diversa. Rendetevi meno vigliacchi di quello che già siete.
Impazzire all’idea di ammainare la propria bandiera non significa tifare per il calciatore, significa piuttosto rispettare la storia per la quale noi, colpevoli di una primitiva passione, abbiamo sempre combattuto. Nei bar e negli oratori. Tanto sappiamo tutti che lui è la Roma, che lui non si discute ma si ama. Soprattutto, sappiamo tutti che lui non ha bisogna di essere nominato. Trentacinque anni non sono pochi nel nostro ghetto, purtroppo; il tempo è un galantuomo che ti aspetta prima e non ti concede sconti dopo, imperterrito com’è nel suo perverso scorrere. E io so già che quando arriverà quel giorno, rispetto alla cui identificazione non accenno nessun indizio, sarò attanagliato da uno smarrimento straziante. Osserverò intorno a me e leggerò lo stesso stato d’animo nel vecchio signore giallorosso, abbonato all’Olimpico dai tempi di Giacomino Losi e ancora incapace di comprendere il fluire della vita. Tornerò a casa abbattuto e vedrò il poster della mia infanzia, allo stesso posto, immacolato nonostante sia trascorso un decennio. Le parole chiederanno il permesso solo qualche ora dopo.
Il tempo mi aiuterà a capire che per i campioni della vita, di qualsiasi genere, non c’è mai una fine: l’eternità è sempre pronta ad abbracciare nuovi figli. Per il momento rifiuto la normalità, per il momento voglio godermi l’attimo e credere che il mio Capitano sia immune dai meccanismi ciclici. Mi illuderò almeno di prolungare un dolcissimo tramonto. La Roma sarà sempre quella che “nessuno capirà mai” e i “malati” irreversibili come il sottoscritto surclasseranno il partito dei “figli del vento”. Se per caso, ma ne dubito, il presente ti ferisce così tanto che non riesci a procedere oltre, caro lui, spero tu visiti Mondopallone e ti consoli parzialmente leggendo questa frase: “Io ti amerò sempre, Capitano!”. Hai scavato un solco nel mio cuore e ti ci sei insediato. Un colpo da fuoriclasse: come un cucchiaio!