Eppure George Orwell lo aveva previsto diversi anni or sono. Nel suo romanzo capolavoro 1984, lo scrittore inglese ipotizzava una società interamente dominata dallo spionaggio di massa, da telecamere pronte a riprendere e analizzare ogni frangente della vita quotidiana. Grossa parte delle profezie orwelliane hanno avuto esecuzione: di buono, di antico, ci sono rimasti soltanto dei frammenti sparsi qua e là. Uno di essi riguarda proprio il calcio.Effettivamente, a pensarci bene, uno sport in cui il direttore di gara non può avvalersi di strumenti comuni alla quasi totalità degli spettatori, consapevoli dopo pochi secondi dalla decisione se questa sia errata o meno, suona arcaico, fuori dal tempo. In molti faticano a comprendere come proprio tale caratteristica costituisca un elemento affascinante, romantico. Sarebbe ancora il nostro calcio con telecamere pronte a intervenire assiduamente e sostitutive dell’arbitro? Non credete che il ruolo di quest’ultimo perda ogni peso? L’abbiamo costruita così la fonte delle nostre passioni, l’abbiamo accettata, spesso criticata ma mai messa in discussione tra i vertici del cuore. Adesso ci teniamo ciò che già esiste, frutto della nostra cultura, dei nostri pregi e difetti: i progressi devono nascere sulla stessa base.
Simili pensieri dopo l’infuocato Milan – Juve del sabato scorso, appaiono di certo discutibili, arretrati. Non ci si rende conto che il vero problema consiste nella sudditanza psicologica in primis, peccato umano e difficilmente correggibile anche con l’ausilio della modernità. Non voglio suggerire idee arrendevoli, capaci di rassegnarci alla disparità di trattamento tra le grandi e le meno grandi; la correzione più incisiva dovrebbe essere apportata nella preparazione alla tanto declamata uguaglianza. Mi spiego: se Milan e Juventus ricevono dalle televisioni proventi cinque volte maggiori a quelli di Lecce e Siena, occupano i palinsesti delle trasmissioni sportive per tre – quarti e godono di una certa protezione da parte di alcuni addetti ai lavori, la visione collettiva logicamente ne risente. E gli arbitri non esulano da tale conseguenza, essendo uomini comuni della società. Il modello, anche stavolta, e scusatemi se suono noioso, è l’Inghilterra, patria dell’equa distribuzione dei diritti televisivi e non per questo svuotata del prestigio che certi club conferiscono più degli altri. Perché, sia chiaro, il mio non è un attacco ai colossi del calcio italiano o alla meritocrazia informativa. Poi se la discussione verte sul gol fantasma di Muntari e si propina una sorta di arbitro dietro la porta, risulto pienamente d’accordo. Ma niente tecnologia, per favore.
Moderando le lamentele per le disattenzioni meno gravi, tipo un fuorigioco millimetrico, l’alone dell’astio perderebbe titoli come le borse odierne. Non si può urlare, chiedere doppio rispetto e insinuare alla malafede di domenica in domenica; a tratti si ha l’impressione che ci sia un nuovo sport, in cui a vincere è l’irascibile ostinato di turno. Per non parlare dei canali dove il pallone è un optional, un oggetto subordinato alle congetture di moviola. Invochiamo, anzi lottiamo (!) per l’eguaglianza e il dialogo: qualcosa, almeno, cambierà. Altrimenti eliminiamo definitivamente la figura dell’arbitro, installiamo una telecamera ogni venti metri di campo e facciamo scegliere ai telespettatori, attraverso il televoto, la formazione titolare. Sarebbe questo il nostro calcio, quello a cui tutti siamo conformati e in cui rivediamo pezzetti del nostro carattere? E poi possiedo una convinzione profonda: qualora la tecnologia dovesse trionfare, gli scontri polemici e le battaglie orali non si fermeranno lì perché accadono episodi in cui, replay o no, l’interpretazione è davvero soggettiva, non in grado di accomunare le varie opinioni. Inoltre siamo italiani, condannati a esserlo per sempre, “per lunga tradizione troppo appassionati a ogni discussione” (vero signor G?).
Piaciamoci così e modernizziamoci attraverso la conservazione!