Nasce un pensiero, e poi…si parla di pallone

Oggi la fantasia non è mia complice, la mente è offuscata quasi come se ritornasse da un eterno viaggio. Ancora adesso, nel momento in cui scrivo queste prime righe, non so dove finirò per arrivare. Lo giuro, eh: d’altronde potrete benissimo rendervene conto quando leggerete l’operato intero; siate magnanimi però, comprensivi, un attimo di smarrimento è umano, a volte persino piacevole.Ieri sera ho acceso la tv, iniziava la sessantaduesima edizione del Festival di Sanremo. Non che io sia un fan della compagnia dell’Ariston, infatti sono capitato casualmente su Raiuno, ma almeno per una buona mezzora mi sono intrattenuto nella visione.

Esistono alcune cose, puramente italiane, storicamente italiane, le quali pur cedendo ogni anno pezzi della loro qualità, della loro unicità, si trascinano dietro un alone di fascino intramontabile. Saremo in parte esterofili, non si sa più se per realtà o assuefazione al luogo comune, ma le radici del tricolor, le peculiarità grazie a cui siamo etichettati nei più svariati modi nel mondo, non abbandoneranno mai la nostra vita. Che ci piaccia o meno. Alzi la mano chi, tranne i fenomeni o i sapientoni enciclopedici, non abbia percepito un retrogusto nostalgico, italiano, nella vittoria del Novara di Mondonico, a San Siro. Così il calcio del Belpaese è diventato celebre nell’universo, insegnando la tattica a tutto il continente europeo e non solo, toccando quattro volte le stelle del cielo e annoverando nel proprio campionato parecchi dei più grandi in assoluto. Perciò bisogna necessariamente precisare un punto: arriva un Luis Enrique qualsiasi dalla Spagna a innovare, a esportare la sua diversità, e tali tentativi ricevono la giusta ammirazione; parla Arrigo Sacchi, anticonformista persino nei confronti di se stesso, e nonostante gli eccessi verbali continuiamo a stimarlo perché ha trionfato. Stravolgendo un museo di certezze per giunta.

Apriamoci alle novità, ce lo richiede il mondo. Ma non dimentichiamo e non snobbiamo il passato, la pietra miliare del futuro, la giustificazione della storia. Il catenaccio di Mondonico, così orgogliosamente definito dal protagonista, è arte esclusiva italiana, testimonianza di una nazione che dopo la seconda grande guerra si scoprì svilita da un ventennio di limitazioni creative, di forzata conduzione verso una virilità immaginaria. Si era persa l’abitudine al pensiero e in più persisteva la convinzione di una certa inferiorità fisica rispetto al resto del globo: speculare sui difetti altrui appariva l’unica soluzione. E via a catenaccio e contropiede, accorgendosi poi di avere in possesso una formula magica; la vera natura del nostro difensivismo, in realtà, costringeva allo spostamento di un uomo dal suo reparto a quello arretrato, obbligava a correre più dell’avversario e a mantenere la concentrazione alta per novanta minuti, onde evitare di subire il dominio territoriale volutamente concesso.Riuscimmo quindi a plasmare i migliori allenatori del movimento proprio grazie alla forza del pensiero, precedentemente nemica. Da dove prelevare l’uomo da mettere in difesa? E come risistemare di conseguenza la squadra? Siffatta mentalità di gioco, inoltre, ci convinse dell’indispensabilità del fuoriclasse: se il tuo calcio è accorto, inevitabilmente le occasioni da rete non saranno numerosissime. Ecco che la percentuale di concretizzazione deve avvicinarsi al cento per cento, e come riuscirci se non con i campioni? Quanti eccelsi numeri dieci abbiamo avuto…L’Italia ferita della prima metà novecentesca si rivide improvvisamente furba e intelligente, le carenze divennero i pregi e furono mescolate col poco di buono lasciato dai precedenti gestori di ogni cosa. Il calcio fascista, infatti, assurgeva al ruolo di specchio nazionale, portava in giro la vigoria atletica e la serietà lavorativa che i dittatori instaurarono con ostinazione nel paese intero, o almeno in grossa parte. Quando Winston Churchill esclamò che “gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre” non aveva tutti i torti. E’ così tutt’ora.

Ringraziamo catenacciari incalliti come Rocco e Trapattoni se il Calcio Italiano è diverso, tanto per fare un esempio, da quello dei fanatici francesi o se nell’estate del 1982 abbiamo versato lacrime di gioia per l’urlo di Tardelli, passando con disinvoltura al “po po po po po po po” del 2006. Alla resa dei conti, il flusso dei miei pensieri, innocentemente perversi e complessi, si conclude con un appello: rispettiamo il passato e…guardiamo il Festival di Sanremo!

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Francesco Loiacono