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Il margine risicato (cinque soli voti) non rende evidente il fatto più importante: la vittoria elettorale di Giovanni Malagò, nuovo presidente del Comitato Olimpico Nazionale, è un autentico trionfo. Lungi da me prendere posizione nel merito dell’uomo (il cui profilo presenta non pochi punti di complessa interpretazione), ma il punto su cui non si può tacere è che partiva sconfitto, e ne è uscito vincitore. Per usare una metafora che sentiremo spesso nei prossimi giorni, Raffaele Pagnozzi è stato vittima di quei tanti casi in cui chi entra Papa in Conclave ne esce poi ancora Cardinale.

Preciso subito, a scanso di equivoci: non ho particolari antipatie da far valere contro Pagnozzi, né particolari simpatie per Malagò, né tantomeno disistima del predecessore Gianni Petrucci, che negli ultimi quattordici anni, nei successi e negli insuccessi, è stato la faccia del nostro sport (quattro Olimpiadi estive a suo carico, più quelle invernali tra cui l’appuntamento di Torino 2006). Certo, ho i miei giudizi su ciascuno di loro (il lodo Petrucci, giusto per dirne una, non è una norma che mi piaccia particolarmente; o forse a carico di Malagò dovrei citare i possibili abusi edilizi in occasione dei Mondiali di Nuoto 2009), ma non mantengo preclusioni. Come anche i colleghi della redazione sanno, in tutta la mia vita sono abituato a pensare che a parlare debbano essere i fatti: il passato conta relativamente, poiché si è sempre in tempo a costruire qualcosa di nuovo e di inedito.

Il fatto è che con la nomina di Malagò a presidente del CONI si è chiusa un’epoca. E non è tanto l’epoca di Petrucci, quanto proprio la tradizione “ereditaria”: quella che vuole il capo della segreteria prendere la posizione del presidente uscente. Pensiamoci bene: in giorni in cui il Milan torna a macinare vittorie che contano (Allegri era sulla graticola pochi mesi fa, ora invece ogni pensiero malizioso è serenamente concesso), e in giorni in cui il paese riflette sull’ennesima piccola grande farsa (quando si dice che la Rete non nasconde niente); in questi giorni, dicevo, assistiamo all’arrivo di una nomina inattesa e contraria alla “tradizione”.

Quello che voglio dire, perciò, è che la nomina di Malagò è frutto di un lavoro abile e proficuo, quello che lo ha portato a raccogliere 40 voti (partendo da una base minima) pensando che non esistono idee preconcette, e che non esistono posizioni predefinite: tutto si può adeguare al bisogno, e i legami si possono costruire in un attimo. In poche parole: un maestro nel crearsi una lobby che vada oltre le posizioni di partenza, capace di creare un’alleanza attorno a sé. Malagò può piacere o meno, ma in questo si è dimostrato perfetto. Lo aspettano un nuovo parlamento e la sfida di vincere proprio laddove ha accusato con più energia Gianni Petrucci: l’incapacità di riuscire a trovare i numeri giusti per sbloccare la legge sull’impiantistica sportiva (meglio nota come “Legge sugli stadi”). Parte da 1-0, ma la partita è ancora lunga.

Se questa nomina sia poi un bene, sinceramente, preferisco non sbilanciarmi. Al solito: vedremo l’opera e capiremo cosa rimarrà. Ma il segnale è chiaro: niente è scritto, tutto si può fare. Come il dibattito sulla classe dirigente che ci ritroviamo: non è questa perché viene dall’alto, quanto perché dal basso l’abbiamo selezionata. Se non riusciremo a prendere coscienza che sono le nostre azioni e i nostri pensieri quotidiani a fare la realtà, beh, ci meritiamo solo ciò che abbiamo. Se crediamo di dover avere di più, dobbiamo rimboccarci le maniche. Cioè: se punti in alto, devi agire di conseguenza.

Malagò è stato eletto, a Roma ci saranno elezioni ultraterrenne tra breve, e oggi è l’ultimo giorno di propaganda pre-elettorale per le politiche: buon voto a tutti. Anche se solo pensare alle urne mi fa credere che il nostro paese, se non si muove, sia da estrema unzione.