Uno sguardo sulle Paralimpiadi
Ci sono storie così belle che vanno raccontate. Anche se il calcio c’entra solo di riflesso ma dopotutto i miei lettori (posto che ve ne siano) non se la prenderanno a male. Parlo delle Paralimpiadi: quelle che vengono considerate in modo buonista solo da chi non le vede. Quelle che vedono sfogare il paternalismo di molti, per fortuna non di tutti (vi consiglio di leggere almeno il primo paragrafo; e vi consiglio di leggere Antonio Pascale in generale, anche).
Un po’ come la disputa su Oscar Pistorius, insomma: immutata la stima per la forza e il coraggio, il dibattito è ridotto a pensieri banali. Quando dovremmo pensare, piuttosto, che lo sport è sport, e quello che conta non è la presenza o no di un qualche handicap: a valere è solo la sfida posta dall’atleta contro se stesso. Lo sport non è fatto dal gesto atletico perfetto e dall’essere normodotati, ma dall’attitudine con la quale ci si rapporta allo sforzo. Campione o non campione, sei sportivo se ti atteggi a sportivo. Tutto il resto sta a zero.
Prendiamo uno degli episodi più noti di questi giorni, questo qui:
A me sembra il tipico esempio di pathos sportivo. Giocare con e contro i propri limiti, che per un paratleta sono, giocoforza, diversi. Ma prendiamo il caso più bello, quello del sorriso di Alex Zanardi: campione a metà sulle auto (successi senza fine negli USA, ma deludente in Formula1), campionissimo fuori dai circuiti. Vivo per miracolo, non si è mai abbattuto di fronte alla sua vita cambiata drammaticamente nell’incidente del Lausitzring (il video è istruttivo, ma a tratti per stomaci forti).
Era il 15 settembre 2001, il mondo intero era ancora sconvolto da ciò che sappiamo: si diceva che niente sarebbe stato più come prima, non so se poi fosse proprio vero. Ma la vita di Zanardi, questo lo so per certo, non poteva essere più la stessa. Una vita nuova, ridisegnata da zero: la prima macchina con il cambio al volante (e l’entrata dal bagagliaio) è stato solo il primo passo nella nuova vita (e se ho scritto “passo” un motivo ci sarà). Con un sorriso disarmante.
Perché dico questo: perché lo sport significa guardare quel sorriso senza compatirlo, anzi: guardando la persona che c’è dietro, e capendo che ha solo accettato l’ennesima sfida, l’ennesimo limite imposto dalla vita.
Lo sport come la propria filosofia, insomma. Quella stessa che lo ha portato a esordire nell’handbike alla maratona di New York nel 2007 (finendo addirittura quarto), vincendola poi l’anno scorso (e stabilendo il record di velocità, per non farsi mancare niente). Fino ad arrivare, all’età di quasi 46 anni, a partecipare alle Paralimpiadi portando a casa un oro sul circuito di Brands Hatch. Gli è sempre piaciuto correre, in tutto: e si vede.
Ci sarebbe spazio anche per raccontare di Annalisa Minetti, vittoriosa a Sanremo nel 1998 (bisogna dirlo: con un regolamento tagliato su misura), bronzo sui 1500 metri con il record per la sua categoria (migliorando un record già suo, a dirla tutta). E c’è spazio anche per dire che non tutto è pulito neanche qui, e che la scienza serve proprio a capire certe cose. Magari senza traviare lo spirito olimpico sarebbe meglio.
Ma in apertura avevo detto che il calcio, con questo editoriale, c’entrava solo di riflesso, per cui vengo al dunque: alle Paralimpiadi si gioca anche il Calcio a 5-un-lato. Due balaustre sui lati lunghi del campo, quindi niente rimesse laterali, ma la particolarità maggiore è che i giocatori sono ciechi o ipovedenti, e in ogni caso indossano una maschera sugli occhi; e il pallone emette un piccolo suono per essere individuato. E i paracalciatori controllano la palla, si marcano, tirano le punizioni… come se fosse niente. Sfido qualunque normodotato a fare altrettanto.
In tutto ciò il pubblico deve rimanere completamente zitto: cosa impossibile a qualsiasi altra latitudine (da noi anche una partita dei pulcini o di terza categoria ha un corredo di urla e improperi da far rabbrividire). Non so voi, ma io trovo che sia un contrappasso magnifico che il pubblico, di fronte a calciatori ciechi, sia composto di spettatori… muti. Un modo per rispettare gli altri, e i loro limiti; e quasi per immedesimarsi.