Home » ESCLUSIVA – I nuovi talenti: Giuseppe Ponsat

Foto per gentile concessione della Società Sportiva Monza 1912

Dopo Cotali dell’Olbia, De Grazia del Teramo e Danese dell’Akragas, torniamo a occuparci del Girone A della Serie C e, più precisamente, del Monza dove siamo andati a trovare l’attaccante classe 1995 Giuseppe Ponsat.

Giuseppe è stato uno dei primi acquisti della società brianzola appena tornata in Serie C, una seconda punta che tanto bene aveva fatto, nonostante la retrocessione, con la maglia del Forlì (30 presenze e 6 gol). Uno di quegli attaccanti con un innato senso del gol e della posizione, un buon dribbling specialmente nell’uno contro uno, una voglia matta di cucirsi uno spazio importante nel panorama calcistico professionistico e, infine, una timidezza (forse perché non abituato ai microfoni) e anche una serietà che hanno fatto trasparire a chi scrive un forte senso del dovere e della responsabilità.

Ciao Giuseppe, partiamo proprio dall’inizio. Dove hai tirato i primi calci a un pallone?

Io sono di La Cassa in provincia di Torino e ho iniziato piccolissimo al Savonera Moroso: feci solo un anno e mi spinse un amico di famiglia. Giocavo con mio fratello, con il mio migliore amico e con tanti altri amici di infanzia. Poi, andai subito alla Juventus con la quale ho fatto tutto l’iter delle Giovanili per 12 anni.

A prescindere dal tifo e dalle passioni di ognuno, com’è stare nella Juve?

Innanzitutto, crescere in un settore giovanile come quello bianconero credo sia ciò che di più educativo possa esserci perché mi ha insegnato educazione, appunto, e rispetto dei ruoli. Ci sono regole ben precise da seguire: non dico una sorta di leva militare, ma a differenza di tante altre squadre lì ci sono comportamenti ben precisi da rispettare. L’educazione, insomma, non si ferma solo a un livello calcistico ma abbraccia tutti i campi della vita e della formazione di un uomo.  

Già in quegli anni eri un attaccante o qualcuno ti sprona a esserlo? C’è qualche allenatore che ricordi con più affetto e che ti ha migliorato anche dal punto di vista tecnico? 

Io sono stato stato e mi sono sentito sempre un attaccante. Magari, in passato ho occupato anche una posizione da centrocampista avanzato o da esterno, ma sono stato sempre una punta principalmente. Alla Juve si lavora moltissimo la tecnica, tanto da farla diventare persino noiosa: fino a 12 anni non si fa altro o quasi, è un lavoro quotidiano e continuativo. Ogni allenatore ti lascia qualcosa, mi sono trovato bene con tutti loro. A livello di carisma, Maggiora e Della Morte mi hanno dato tanto e mi hanno fatto entrare nell’ottica del calcio vero in tutte le sue sfaccettature. In quegli anni ho partecipato a tantissimi tornei: la vittoria più bella quella nella Coppa Scirea disputato contro tante squadre blasonate a livello europeo. Il torneo più bello, anche se perdemmo la finale col Paris Saint-Germain, fu quello in Qatar dove battemmo club come l’Ajax e il Barcellona: fu grande il rammarico per aver perso ai rigori.

Poi, vai alla Primavera della Pro Vercelli e, dunque, in Serie D alla Novese. Cosa mi racconti di quegli anni?

L’ultima stagione alla Juve e l’anno a Vercelli sono stati due anni tra i più difficili che abbia vissuto perché ho patito tanto a livello di infortuni e sono stato tanto tempo fuori dai campi di calcio. Ho avuto problemi alla schiena, alla caviglia e anche agli adduttori: è stato davvero complicato. Poi, alla Novese sono stato due stagioni ed è stata la mia prima vera esperienza con i “grandi”. Due annate importanti e bellissime per quanto riguarda le amicizie e i rapporti umani: andavo ancora a scuola e, quindi, con alcuni compagni di squadra ci ritrovavamo anche lì. Il primo anno, la squadra era stata costruita per puntare in alto e con prospettiva: e le cose non sono andate, però, come ci si aspettava; il secondo anno, invece, il budget fu ridotto e ciononostante decisi di restare, anche perché volevo completare gli studi. Una stagione particolare: raggiungemmo la salvezza all’ultima giornata di campionato, ma la società non era più sana e le difficoltà furono tante. In tutto segnai 13 reti, 8 il primo e 5 il secondo. I gol più importanti sicuramente quello in casa del Verbania e quello a Tortona, dove conquistammo la salvezza.

Successivamente, vai alla Correggese.

A Correggio fu una svolta per me. Una società sana con un progetto importante, un mister (Nicola Campedelli, poi esonerato per Eugenio Benuzzi) che mi ha fatto crescere tanto. Da Campedelli ho ereditato dei concetti di gioco importanti e, in generale, fu un’annata importante: feci parecchi gol, vinti i playoff e fu una stagione fortunata. 

Ci avviciniamo all’attualità: lo scorso anno a Forlì tra i professionisti, segni 6 gol, realizzi tre assist ma non basta. Come hai vissuto la retrocessione?

Il gol più bello, intanto, è stato quello contro la Sambenedettese. In generale, la scorsa stagione a Forlì è stato un continuo rincorrere: siamo partiti malissimo con tre punti nelle prime undici giornate; poi, abbiamo avuto una svolta importante che ci consentì di uscire dalla zona rossa dei playout con un filotto di successi consecutivi. Nell’ultima parte di campionato, invece, non siamo riusciti a vincere gli scontri diretti decisivi per la salvezza e, quindi, ci siamo andati a giocare i playout contro il Fano, perdendoli. Un bruttissimo momento vissuto male: ci si sente sconfitti, tutto il lavoro realizzato in un anno sembra inutile.

Finalmente a Monza, una società sana e un allenatore (Marco Zaffaroni) che puntano molto su di te, seppure il più delle volte parti dalla panchina. Rispetto all’annata a Forlì cosa noti di diverso e che miglioramenti hai notato su di te?

Il mister è molto bravo e ci fa lavorare sodo tutta la settimana, studiando l’avversario e su ciò che di volta in volta dobbiamo fare: scendiamo in campo e sappiamo come affrontare i rivali di turno. Una delle cose principali che qui a Monza balza subito agli occhi è l’intensità: il mister da molta importanza a ogni singolo allenamento. Cerco di farmi trovare pronto partendo dalla panchina e i gol contro Carrarese e Prato credo che lo dimostrino.

Attualmente sesti, dalla prossima vi aspetta una settimana di fuoco con le sfide contro Gavorrano, Pro Piacenza (in trasferta) e la capolista Livorno. Come state preparando questi tre turni in una settimana e quali obiettivi vi siete prefissati?

Non ci siamo posti degli obiettivi a breve o lungo termine: giochiamo ogni partita sapendo che possiamo vincere. Certo, se potessi scegliere, risponderei di fare nove punti. In ogni caso, credo che 7 punti da queste tre gare siano alla nostra portata, a patto che si dia il massimo e si vada in campo con la massima concentrazione. Io mi farò trovare pronto.

Tra le squadre del Girone A, quindi tra quelle incontrate fin qui, quale ti ha impressionato maggiormente e perché?

A me sono piaciute molto la Viterbese perché ha giocatori di categoria e un calcio molto propositivo e l’Alessandria che, nonostante le difficoltà, ha individualità di spessore.

E il giocatore più forte che ti sei ritrovato davanti?

Moscardelli.

Quale ritieni sia il tuo punto forte?

L’intuito e l’istinto nella giocata e nel movimento con o senza palla.

Quale il punto debole?

Oltre i centimetri d’altezza? (se la ride ndr). Credo che si possa in ogni momento migliorare sotto tutti gli aspetti: c’è sempre qualcosa da imparare.

A quali giocatori del passato e del presente ti ispiri?

Nessuno in particolare, però sono un patito di Messi e Dybala.

Sogno nel cassetto? Che maglia vorresti indossare un giorno?

Indossare di nuovo la maglia della Juventus sarebbe il massimo.