L’altra Olimpiade – 2. La prosecuzione della pace con altri mezzi
Se ieri ci siamo soffermati su Mourad Laachraoui, atleta olimpico e fratello di un terrorista suicida, oggi ci spostiamo su un altro campo e un altro continente: scendiamo in Africa, per due storie di livello e contenuti complementari.
La prima è quella di Samia Yusuf Omar, atleta olimpica a Pechino (quando aveva solo 17 anni) nei 200 metri piani. Questo il video della sua batteria: il suo tempo di 32″16 è degno di essere ricordato soltanto perché il più lento dell’intera manifestazione, tant’è che nel video Samia “scompare”, per poi ritornare quando le altre si sono già tutte fermate. Ma è, al solito, spirito olimpico: la sua volontà di andare comunque al traguardo, e l’incoraggiamento del pubblico che la accompagna negli ultimi metri.
Fa tenerezza a vederla: in pista con lei partono fior di atlete, muscoli d’acciaio al confronto di questa ragazzina esile che indossa una maglietta con le maniche, e che porta persino una fascia sulla fronte. Come se venisse da un altro mondo: come se avesse sempre vissuto a una velocità diversa.
La sua storia si conclude nel 2012, quando Samia affoga nel mar Mediterraneo. Tornata in Somalia dopo Pechino 2008, due anni dopo aveva dovuto trasferirsi in Etiopia, per via delle condizioni del suo paese, fiaccato da una guerra infinita. Dall’Etiopia al Sudan, alla Libia, a una speranza chiamata Lampedusa: voleva raggiungere l’Europa per trovare un allenatore che potesse aiutarla a qualificarsi per Londra 2012. Era aprile: all’ultimo tuffo. Ironia della sorte, la notizia della sua scomparsa è arrivata solo a fine agosto, quando le olimpiadi si erano già chiuse.
La sua storia è diventata soggetto di due libri: Non dirmi che hai paura di Giuseppe Catozzella, e di un romanzo a fumetti del tedesco Reinhard Kleist. Tanta voglia di vivere, tanta voglia di correre che non ha potuto neppure essere ricordata dove avrebbe meritato.
È il destino di chi fugge: correre, dovere correre. Scappare da una realtà insoddisfacente, negativa, quando non rischiosa. Lasciare tutto, per poter conservare la propria dignità. È ciò adesso che è chiamato a fare il Refugee Olympic Team: correre sotto la bandiera con i cinque cerchi intrecciati, alla testa di un movimento transnazionale (e del tutto involontario). Una iniziativa voluta dal Comitato Olimpico Internazionale, che mette assieme dieci atleti il cui status di rifugiato è stato verificato dalle Nazioni Unite.
Già sento gli applausi scontati del pubblico durante la cerimonia di apertura, venerdì notte. E penso a quante persone, in quante case, per un attimo saranno commosse e penseranno a vite e destini… per poi passare oltre nel giro di pochi giorni. E per poi ripartire con i soliti stereotipi politici che troppo spesso avvelenano le nostre televisioni.
Lo so che il team dei rifugiati è una meravigliosa trovata mediatica, lo so. Ma non per questo non è importante simbolicamente: dieci persone che non hanno più una casa, e hanno dovuto stracciare la propria bandiera. Eppure troveranno posto nel villaggio olimpico insieme a tutti gli altri, sapendo di essere parte degli atleti del mondo.
E so solo che Samia Yusuf Omar sarebbe fiera di questa squadra.
(2. – continua)
Puntate precedenti:
1. Il fratello buono