Rugby: un terzo tempo col bicchiere (mezzo) vuoto
Avvertenza al lettore: il presente editoriale sarebbe potuto essere scritto due settimane or sono. O all’inizio del Sei Nazioni 2016. O, addirittura, alla fine del Mondiale d’Inghilterra dello scorso ottobre vinto dagli All Blacks.
Vi garantiamo che, in realtà, è roba fresca, ma è sin troppo evidente che questo costituisca uno tra i più annosi problemi ad affliggere l’ovale tricolore, che da anni, troppi anni, si palleggia tra ottimi propositi, dichiarazioni di prammatica, pacche sulle spalle e sonore musate. Anche questa è retorica: “Abbiamo giocato un tempo…”, “Il movimento è in crescita…”, “Dobbiamo riuscire ad attrarre nuovi sponsor…”, “Si deve acquisire una mentalità imprenditoriale…”. Bla, bla e ancora bla. Raramente leggiamo dichiarazioni “autentiche” (in alcuni casi, purtroppo), raramente leggiamo, dai diretti protagonisti di campo o di scrivania, riflessioni aperte, analisi approfondite, sguardi che sappiano fotografare la situazione offrendo prospettive di sviluppo. Non mancano, per fortuna, commentatori autorevoli e interessanti da ascoltare, ma, si sa, i giornalisti non fanno (quasi mai) la storia: il loro mestiere è, al limite, raccontarla, coi rischi connessi all’osservazione da breve distanza.
Per l’ennesima volta il rugby italiano si lecca le ferite, piegando lo sguardo nella disperata ricerca della miglior angolazione per inquadrare il proverbiale bicchiere mezzo pieno. Nel frattempo, si è passati, sotto la gestione del medesimo selezionatore da tempo dato per uscente (e con nessuna certezza sul sostituto), dal miglior Sei Nazioni mai disputato (2013, terzo posto a pari merito con gli inglesi, battendo a Roma Francia e Irlanda, rischiando di espugnare Twickenham) al peggiore in assoluto, quest’ultimo, caratterizzato da un incoraggiante avvio (il gagliardo debutto parigino, coi sorci… azzurri fatti vedere ai ben più quotati cugini d’Oltralpe), seguito da quattro autentici incubi, a partire dalla doccia gelata rimediata a Roma dai “maestri inglesi”. Avevamo atteso con speranza, rivelatasi poi vana, il classico “spareggio” con gli scozzesi, sorta di derby sia per questioni storiche (tra le anglosassoni europee, la Scozia è la nazione col maggior numero d’emigrati italiani) sia per essere tradizionale appuntamento nel disputarsi (alla meno) il mai desiderato cucchiaio di legno, stoviglia che quest’anno torna a campeggiare presso il triste desco di Parisse e compagni. Nessuna gioia. Anzi: la debacle in terra d’Irlanda ha rappresentato, ancor più dell’ultima sconfitta a Cardiff, la pietra tombale su un torneo da dimenticare o, meglio, da ricordare per provare a ricostruire. Ancora una volta.
I problemi relativi allo stato di salute del rugby italiano sembrano noti a tal punto che elencarli presenta i tratti d’un ritornello; e, per quanto si renda pure necessario registrare nel bene e nel male i cambiamenti sopraggiunti in occasione di quest’ultimo torneo, il rischio d’un paradossale repetita non juvant è pienamente centrato. Ed è pure inutile nascondersi: da mesi ci “tratteniamo” per buona grazia ad avanzare ipotesi sulla “liceità”, per Italrugby, della permanenza nel Tier 1 (la “prima classe” delle nazionali del ranking mondiale), quando, a ogni incontro con le teoriche pari grado, rimediamo puntuali sberloni. Siamo così sicuri che gli Azzurri siano destinati, nelle prossime stagioni, a mantenersi superiori a Romania e Georgia? Le gestione dell’ultima vittoria iridata contro i rumeni, rischiando di compromettere una partita già vinta, non sembrerebbe offrire eccessive certezze in materia.
Sarà pur vero che, da tradizione, il Sei Nazioni che segue un mondiale è sempre caratterizzato da sorprese, novità, giovani giocatori lanciati sul grande palcoscenico al termine di un ciclo, ma i risultati di campo, al di là della prima illusione parigina, sono stati davvero deludenti. Nei modi, ancor più che nei risultati.
E il rugby italiano sembra afflitto da un male difficilmente curabile tra un campionato d’Eccellenza poco qualificante (al di là dell’aver fornito qualche prospetto interessante, su tutti Carlo Canna e Mattia Bellini), assai povero di risorse e prospettive. Val poco registrare l’inserimento (l’ennesimo) di Sergio Parisse tra i migliori del Six Nations appena concluso: la cosa in sé dovrebbe, anzi, rappresentare un’ulteriore allerta per un’ondata argentina ormai in esaurimento (Sergio ha 33 anni, ma si vedano pure le prestazioni altalenanti del pur sempre encombiabile Castrogiovanni, quasi trentacinquenne), dietro cui non parrebbe intravedersi una generazione, italiana o d’importazione, dello stesso livello, se non in mischia, per quella che è, storicamente, una delle costanti qualità del gioco italiano.
Ripensare un modello che, evidentemente, non ha dato i suoi frutti, a partire dall’organizzazione del rugby di base, cercando di far guadagnare all’ovale quella visibilità ottenuta grazie agli inserzionisti (il rugby, a partire dagli anni Novanta, è stato lo sport che ha registrato il maggior aumento di sponsor a livello planetario), ma a cui non è mai corrisposta, in Italia, un’autentica crescita del movimento “reale”, in grado di far uscire l’ovale dall’ambito degli sport “di nicchia” per trasformarlo in un’attività realmente di massa.
E, di nuovo, siamo a cercar d’inquadrare il fatidico bicchiere mezzo pieno. Ma davvero esiste, questo bicchiere, o qualcuno s’è rubato direttamente la bottiglia?
Esiste, lo sappiamo: è quello delle ragazze che espugnano l’Athletic Ground di Port Talbot, infliggendo alle avversarie gallesi una bruciante sconfitta interna (12-16 il finale), per cogliere la seconda vittoria in un Sei Nazioni femminile chiuso al quarto posto in coabitazione con le dragonesse. Notevole, però, che il sito ufficiale della manifestazione, nella versione sia inglese sia francese sia italiana (persino nella pagina esclusivamente dedicata all’incontro!) riporti il risultato “rovesciato”, attribuendo la vittoria al Galles anche per quel che concerne la classifica: un refuso, senza dubbio, che nel frattempo è stato corretto, ma ciò non oblitera l’impressione che si sia trattato d’una sorta di comprensibilissimo lapsus freudiano applicato alla consuetudine ovale.