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L’ovale all’ombra del Sol Levante

Che bellezza il rugby: lo diciamo fuor di retorica, evitando il luogocomunismo sulla lealtà (che, pure, vanta più di qualche generica attinenza), sulla superiorità morale rispetto ad altre discipline (leggasi calcio, soprattutto: e questa, in effetti, è alquanto una sciocchezza) e via dicendo. Il rugby è bello, punto. Duro, sofferto, difficile (da giocare e pure da guardare con un minimo di competenza) e, comunque, spettacolare, coinvolgente, in ogni modo vero.

Coi Mondiali inglesi iniziati da tre giorni, nel corso della prima messe d’incontri, abbiamo già registrato due sorprese, di cui una assolutamente clamorosa: dopo che i padroni di casa, sotto lo sguardo complice del principino Harry, hanno faticato un po’ a prender le misure figiane, ecco il primo sussulto, e la Georgia ribalta lo svantaggio iniziale vincendo su Tonga, candidandosi a terza forza (la piazza è importante perché qualifica alla coppa del mondo 2019 in Giappone) del quasi proibitivo girone C, dove adesso la pressione è tutta sull’Argentina, regolata secondo pronostico dai campioni in carica neozelandesi (il tutto si è consumato dinanzi a novantamila spettatori paganti).

La vera grande impresa è stata, però, quella del Giappone contro il Sudafrica: la meta che Hesketh ha stampato oltre il quarto minuto dopo l’ottantesimo non è il KO del principiante, il colpo gobbo d’un cross che s’insacca con sorpresa di tutti, ma il giusto coronamento d’una partita magistrale, condotta con intelligenza, carattere e una sempre più crescente caratura tecnica. Già nel primo tempo la squadra di Eddie Jones (prossimo il suo addio per approdare a una squadra di club… sudafricana!) aveva fatto vedere i sorci verdi a Du Plessis e compagni, chiudendo con un -2 di grande auspicio. Vero è che nel rugby il tempo non tradisce e, non di rado, nella seconda frazione sono destinate a infrangersi le velleità alimentate da una buona partenza (si veda una manciata a caso di partite azzurre degli ultimi anni).

Non questa volta, però. Gli asiatici han tenuto botta, risposto colpo su colpo alla saccenza boera, giungendo all’ultima azione sul 29-32 palla in mano (fantastica, la meta del 29 pari: vedere per credere). In questi casi, di solito, si cerca un calcio, o un drop, si gioca insomma per il pareggio. Non questa volta, ancora: a rugby si gioca per fare meta. Hesketh la schiaccia a terra, là, in fondo a sinistra: cinque punti, sudafricani battuti. Apoteosi. Tutti a scrivere di questo Giappone, di che impresa sia quella appena compiuta. Tutto vero, ma, nel rugby, niente nasce dal niente e a poco valgono le parziali giustificazioni di un ambiente sudafricano innervosito dalle polemiche per le (assurde) “quote nere” imposte per decreto, minando l’autonomia di un commissario tecnico e, di fatto, “inquinando” il principio secondo cui, nello sport, si dovrebbe sempre e comunque poter schierare la miglior formazione possibile. Quote o non quote, il Sudafrica è una superpotenza del rugby, al punto che potrebbe giocarsela tranquillamente con varie nazionali mondiali anche schierando un’ipotetica squadra B.

Il Giappone non da sabato sta lavorando, e bene, per crescere in prospettiva rugbistica. Si pensi a quanto scritto poco sopra: nel 2019, il mondiale vedrà la sua prima edizione asiatica proprio in pieno Pacifico, ma non alle consuete latitudini australi, segno di volontà di programmazione, mezzi economici (il campionato nipponico vanta fior d’investitori, in grado di attirare molti campioni, anche dalla “vecchia Europa”) per dire la propria anche in quello che è lo sport di squadra più emergente dell’ultimo ventennio. E se delle cinque vittorie contro nazionali di “prima fascia” (il fatidico Tier 1 cui appartiene, non si sa per quanto, l’Italia) due risalgono al millennio scorso (28-24 alla Scozia nel 1989 e 44-29 all’Argentina nel 1998), non è un caso che le più recenti, escludendo quella di sabato, risalgano agli ultimi due anni, ossia ai test match (che non sono amichevoli, non ci stancheremo mai di ripeterlo) estivi 2013 (23-8 al Galles semifinalista mondiale) e 2014 (26-23 proprio contro Azzurra ovale).

C’è molto da imparare, a Roma, gettando lo sguardo là dove sorge il sole. Sia chiaro: le situazioni sono molto diverse e non sarebbe realistico auspicare investimenti che non esistono, giacché il comparto sportivo italiano è in complessiva sofferenza. In teoria, puntare sulla formazione di base, sulle accademie, lavorando sugli under 16 e gli under 18, è senza dubbio una strada giusta; ma, lo sappiamo bene: siamo il paese in cui il problema non mai la ricetta, quanto la sua messa in pratica. La burocrazia, certa burocrazia, è nemica dell’efficienza; se aggiungiamo l’allergia condivisa verso una sana, sportiva meritocrazia, il rischio di lastricare d’ottime intenzioni il cammino che conduce a un ridimensionamento che nessun amante dell’ovale desidera in cuor suo, assume i contorni della tragica certezza. Col risultato di aver sprecato anni e anni di lavoro, talvolta buono.

Abbiamo bisogno di forza, coraggio, di rimettere mano, una volta per tutte, ai campionati nazionali; e ci vorrebbe, forse, anche un poco di fortuna, ma, quella, si sa, aiuta gli audaci ed è parente del buon lavoro. Non solo: servono costanza e coerenza (anch’esse figlie di cultura e lavoro) per non deviare dalla strada giusta, individuando coloro che sappiano davvero contribuire a far crescere il nostro mondo rugbistico. Di queste ore è la conferma ufficiosa che sarà Conor O’Shea il successore di Jacques Brunel e, francamente, il rischio del già visto è alto, senza nessuna colpa per il buon tecnico irlandese. Discorsi fatti, sentiti e risentiti, ma che, ben applicati altrove, riescono a sortire gli effetti sperati.
Un augurio, quindi, all’Italia che, senza Masi, sabato avrà il primo match da dentro o fuori con il Canada, XV da non sottovalutare. E, consentitecelo, anche un timido… forza Giappone.