Il caso premi e la mentalità sportiva svizzera
Ora che la vicenda si è conclusa, in maniera in parte inaspettata (soprattutto per noi, che abbiamo una buona esperienza di cose elvetiche, maturata in ambiti differenti da quelli calcistici), si può forse commentare questa storia che, dall’inizio dell’estate (se ne è iniziato a parlare immediatamente dopo il termine della Chellenge League), ha fatto molto parlare appassionati e addetti ai lavori d’oltre confine. Intendiamoci: risulta difficile, per noi italiani, capire lo stato d’animo di chi vive a nord del Monte Olimpino, più che altro perché la mentalità è molto differente. In Italia, per esempio, questa pratica non sarebbe vietata. Abbiamo anche visto a quali sanzioni (ridicole) è andata incontro una squadra come il Catania (e i fatti erano molto, molto più gravi), stiamo ancora dividendoci, dopo anni e sentenze (della Magistratura ordinaria) ormai definitive, sui “33 sul campo”, e via discorrendo. Quindi, cercheremo, per quanto possibile, di spiegare e di far comprendere, a chi ci legge dalla Penisola, quale possa essere, oggi, lo stato d’animo degli appassionati svizzeri di fronte a quanto accaduto.
La prima sensazione è quella dello sconcerto. Una sentenza che ne ribalta una precedente (in assenza, ovviamente, di nuovi elementi) è una cosa che in Italia (autoproclamatasi, per assenza di prove, “Culla del diritto”) viene accettata; oltreconfine, si tratta di un fatto che uno svizzero, difficilmente, può comprendere e condividere. Certo, ne prende atto, magari qualificandolo come un episodio, da addebitare a una falla del sistema: cosa che, sempre nella mentalità elvetica, è da considerarsi assolutamente intollerabile. A conferma di ciò, la prima cosa che è stata detta, all’unanimità (persino dagli avvocati difensori dei giocatori che, al netto della legittima soddisfazione, sono apparsi anche’essi stupiti da come sono andate le cose) è che il primo capoverso dell’art. 135 del Regolamento, va riscritto. La sua formulazione (anche nel testo tedesco, che è quello che fa fede in tutte le questioni giurisprudenziali rossocrociate) lascia spazio a dubbi. E, probabilmente, il Tribunale dei Ricorsi della Federazione ha proprio voluto evidenziare questo fatto, tanto da averlo esplicitato: non potevano essere i due calciatori del Lugano a pagare per avere pagato (ci venga scusato il gioco di parole) dei premi a vincere, visto che ciò non era vietato in modo chiaro. La notevole disparità di trattamento tra chi ha promesso e dato il denaro (12 giornate di squalifica) e chi lo ha ricevuto (solo una pena pecuniaria), è stato sicuramente un altro elemento che ha giocato a favore di un riesame completo della decisione di prima istanza, pur valutando più grave (ovviamente) il comportamento di chi ha ideato l’intesa. Questo, dal punto di vista strettamente giurisprudenziale: il sistema giudiziario elvetico (sotto tutte le sue forme) sa essere garantista, anche se mondato dai nostri bizantinismi.
Dal punto di vista etico, invece, il discorso è molto più complesso. Certo, l’appassionato svizzero è pragmatico, come in tutte le cose della vita: sa benissimo che, nelle serie inferiori, la pratica è diffusa, con birra e luganeghe al posto delle banconote da mille Franchi. Ma un conto è complimentarsi con una cassa di Feldschlösschen, da dividere tra i giocatori della squadra che ha battuto l’avversario diretto, magari del paese a dieci chilometri dal tuo, e spedita a risultato acquisito, un altro, è un accordo prepartita articolato. I più garantisti, parlando del campionato passato, raccontano del Wholen, volato quattro giorni in Spagna senza allenatore in “ritiro prepartita”, e sui resti del quale passeggiarono, pochi giorni dopo, i Grenat del Servette, rivali diretti del Lugano: ma non risulta che i ginevrini avessero pagato la vacanza agli avversari. Vengono in mente, ai garantisti, episodi gravissimi come lo scandalo scommesse del 2009, sempre in Challenge League (un benaltrismo che noi conosciamo bene, e pratichiamo a piene mani).
Ma, sicuramente, il pensiero dell’appassionato elvetico (perlomeno, della maggioranza, e a prescindere dal tifo) è un altro. Il fatto è stato accertato, e il Tribunale dei ricorsi lo conferma, derubricandolo a infrazione bagatellare, perché non si può parlare di risultato falsato, ma di incentivo a dare tutto nel corso di una prestazione sportiva: cosa che dovrebbe essere palese. Del resto, anche in Italia esiste (per esempio) un obbligo a schierare, sempre, la miglior formazione, in qualunque incontro, con l’implicito scopo di dare sempre il massimo. Però, chi dice questa cosa, forse, non ha mai praticato sport agonistico. È normale che, nel corso di un qualsiasi torneo, di qualunque disciplina, ci siano partite che si affrontano con maggiori o minori motivazioni. La “curva della forma” di un atleta, o di una squadra, persino dei cavalli nell’ippica, ha alti e bassi fisiologici. Fatti del genere, anche se accettati in Paesi diversi, vanno a influenzare in modo artificiale questo stato di cose oggettivo, un innegabile fattore esterno che concorre, come la fortuna, una svista arbitrale, un infortunio, al conseguimento del risultato. E allora, dicono gli appassionati svizzeri, riscriviamo la norma, in modo chiaro. Ma per proibire, non per autorizzare. E anche noi, che abbiamo respirato aria elvetica fin dagli anni giovanili, e che oggi la mischiamo a quella scandinava, siamo d’accordo con questo modo di pensare. A costo di sentirci (e lo siamo) fuori dal mondo, soprattutto nella nostra casa sulla Penisola.