Ma non chiamatelo Dream Team
È la più talentuosa di sempre, ma non per questo la più forte. Queste le basi di partenza per l’Italia di Pianigiani alle prese con gli Europei di basket: finalmente tutti i “big” a disposizione, finalmente un’estate priva di problemi, finalmente in campo vanno i migliori e solo loro. Ho ancora negli occhi il labiale di Datome ad Aradori, due anni fa, durante la finale per il settimo e l’ottavo posto: «ma passala, una volta». Comprensibile la frustrazione di Gigi, ma anche l’errore di Aradori: doveva essere il numero 7 o 8, si era ritrovato in quintetto senza capire come. Cioè: per l’infortunio di Gallinari.
Era stata una competizione strana: fuori gioco Bargnani e Gallinari, Simone Pianigiani si era dovuto inventare una squadra molto diversa da quella pensata sulla carta. Era la seconda edizione dei suoi Azzurri: sulla prima era stato impietoso lui per primo («Ma bisogna che si giochi con un po’ di dignità! […] Ma che c…o avete dentro?!», durante Italia-Israele), la squadra si era rapidamente sfaldata. C’erano Bargnani-Belinelli-Datome-Gallinari; c’era Cinciarini, c’era Hackett, c’era Cusin. Ci sono tutti, ancora.
Due anni fa, dagli infortuni (e dal recupero troppo lento di Daniel Hackett) era uscito un gruppo solido, granitico, capace di trovare il giusto equilibrio e un leader-non-leader: da specialista, Belinelli si era dovuto reinventare trascinatore. Ha funzionato nel girone, poi non più nella fase a eliminazione diretta, quando realisticamente l’effetto-sorpresa era finito e anche le batterie erano ben più scariche.
Quest’anno ci sono tutti, e non si parlerà delle fughe di giocatori (come in passato è stato per Valerio Amoroso e il già citato Hackett) né di alibi. Il talento non manca, anzi abbonda: si parlerà del campo, e sarà il campo a parlare. A dirci se saremo noi la vittima sacrificale di un girone di ferro, oppure se, semplicemente, dovremo giocare una finale dietro l’altra.
Ma, e qui sta il punto, non chiamatelo Dream Team. E non soltanto per rispetto a quello vero, quanto perché non c’è niente da sognare: c’è molto da lavorare. C’è da sperare che oltre alle doti sul campo si vedano anche un carattere stabile ed equilibrato, e una faccia tosta che non guasta mai.
Come termine di paragone, penso all’ultima Italia che si sia qualificata alle Olimpiadi. Alla prima possibilità, subito Recalcati aveva estratto il coniglio dal cilindro, di fatto creando alcuni giocatori: Bulleri da riserva di Treviso a titolare azzurro, Soragna leader emotivo e uomo per tutte le stagioni, Mian a fare legna per pochi minuti. A Luleå ci eravamo salvati solo per il rotto della cuffia; al barrage, l’avevamo spuntata sulla Germania giocandocela punto-a-punto. E poi con la Grecia nei quarti, e la Spagna in semifinale. E infine con la Francia: nel girone ci aveva stritolato per 52-85, e invece uscì sconfitta. E alle Olimpiadi andò l’Italia.
Quella era una squadra da sogno. Perché aveva talento limitato, ma un cuore grande così. Era una squadra che non moriva mai, fino alla sirena. Ognuno portava il suo mattoncino, ognuno era disposto a tamponare i limiti altrui senza oltrepassare i propri. Disposti anche a passare sopra gli errori degli altri: quando Bulleri perde palla a 10 secondi dal termine della finalina, coach Recalcati si volta verso destra e gli passa davanti senza dire nulla, come se non fosse successo nulla. Come se insieme al pallone non potesse stare sfuggendo di mano anche la partita. Pochi lo capiscono, ma l’abbiamo vinta lì: su una palla persa.
Quindi non chiamatelo Dream Team, perché non è una squadra fatta per sognare. Anzi: semmai, deve riuscire a restare con i piedi per terra. A non compiacersi del talento, perché da solo non può bastare (e in Europa, peraltro, c’è chi ne ha pure molto di più). Se lo spirito sarà quello di Stoccolma e poi di Atene, ci sarà da divertirsi. Ma, fino ad allora, testa bassa e lavorare.