NBA – Personaggi 2015: James Harden e il bisogno di essere il Barba
Tra Rancho Dominguez e Compton c’è qualche differenza, nonostante la prossimità geografica all’interno di Southeast L.A. Lo possiamo vedere nel grafico del Los Angeles Times riportato in questo articolo: a Rancho Dominguez neanche un crimine negli ultimi giorni del marzo scorso, a Compton decine. Quando James Harden nacque, nel 1989, Rancho Dominguez era il quartiere con il più alto tasso di furti in casa degli Stati Uniti: in pratica quelli di Compton passavano e razziavano.
Come razziavano (e razziano tuttora) a Lakewood, dove la mamma di Harden manda il figlio alle superiori. Siamo però a sud di Compton, la popolazione bianca sale come inevitabilmente si impenna la qualità delle scuole. Ancora una volta, la scelta è basata sull’istruzione e non sullo sport, e poche volte questa scelta non si è rivelata la migliore…
Fatto sta che ad Artesia High allena Scott Pera, ora assistente allenatore a Rice dove sta costruendo qualcosa di interessante. Come di interessante ci furono i dialoghi tra lo stesso Pera, James, e la genitrice si quest’ultimo, tale Monia Willis.
Harden: “Ma io non voglio avere tutto l’attacco della mia squadra sulle spalle!”.
Willis: “Tu fai tutto quello che ti dice di fare lui”.
Pera: “Ok, da domani fai tutto te, James”.
Artesia vince due volte il titolo statale e nel frattempo Harden passa da essere un ottimo tiratore da fuori a one-man-show del campionato tra licei di Los Angeles. Per la prima volta rifugge e poi deve accettare la leadership che lo inseguirà per tutta la carriera.
Al momento di scegliere l’università, il tutto è anche troppo facile: Pera è andato a Arizona State e la nonna materna decede lasciando la sua casetta vicino a Phoenix a mamma Monja, che tra l’altro non vede l’ora di mollare Southeast L.A. A nulla servono le lusinghe di UCLA e la stima che lega Harden a Jason Kapono, che ha frequentato sia Artesia che il rinomato ateneo angelino. James è il 21esimo giovane della Nazione secondo ESPN, che al primo posto in quel 2007 mette Kevin Love (UCLA) e al quinto Derrick Rose. Non è una stella, non vuole esserlo. Il suo allenatore per i Sun Devils dice che non c’è differenza per lui se ne segna 40 oppure 7, l’importante è che i suoi vincano e il giocatore sorriderà.
Nel 2009 James Harden deve lasciare il suo mentore Jason Pera. Arriva la chiamata degli Oklahoma City Thunder. Sam Presti, GM di OKC, chiama in Arizona: “Ragazzi, chi è questo qui?”. Dall’altra parte del telefono spiegano il carattere della guardia; Presti è giocondo: “Tanto di leader ho già Durant e Westbrook! Lo prendo!”.
Kobe Bryant si alza e mette la tripla: fanno 45 in partita per lui, compresa quella “bomba” per la vittoria finale. Los Angeles, 2011. Mentre i giocatori NBA litigano con i loro proprietari, black mamba passa il tempo libero divertendosi nella Drew League, evento privato sponsorizzato dal marchio del baffo.
Chissà se James Harden ha sorriso quel giorno. Lui, dall’altra parte del parquet, ne ha messi 44. La squadra di Bryant ha vinto perché Kobe ne ha messo uno in più del Barba. Il giocatore dei Lakers dirà: “Non era nemmeno titolare in NBA, ma che fatica batterlo… si vedeva che era pronto!”.
Ma ora, Kobe, ci sembra un po’ tardi per dirlo.
Solo qualche mese dopo, James Harden sarà infatti il miglior sesto uomo NBA. A suo agio da comprimario, come agli inizi ad Artesia e come ad Arizona State quando il bene della squadra veniva ben prima del suo. Ma il ragazzo che sfidava il grande Kobe sarebbe diventato un uomo quell’estate del 2012.
Coach Mike Krzyzewski lo porta sul palmo della mano a Londra, dove gli Stati Uniti devastano l’opposizione vincendo l’oro olimpico. James, ormai già trasformato ne “il Barba”, bizzarra creatura mitologica a metà tra il classico gangsta e un moderno dandy, si porta dietro Trina; se conoscete le cronache rosa NBA la conoscete benissimo, perché sembra che non ci sia stella cestistica che non abbia giaciuto con la bella rapper afroamericana. I compagni (nomi tipo Bryant, Durant, Westbrook, Lebron, Paul, i soliti noti) lo prendono in giro, “you’re saving a hoe” dicono, cioè “stai salvando una prostituta”. I riflettori, le fidanzate appariscenti, non fanno per James Harden. Fanno per il Barba.
Probabilmente il ragazzo di Rancho Dominguez lo sa: si è sdoppiato. Il barba gli serve, il barba è colui che accetta un contratto da stella con gli Houston Rockets nella baldanza dei suoi 23 anni, che riempie i social con le foto delle serate in discoteca, che va dal barbiere tutti i giorni per essere sempre perfetto; il barba vuole la celebrità, il successo, le donne, i soldoni.
James Harden, invece, è ancora il ragazzo nato vicino a Compton, quello che non voleva fare il primo violino nemmeno al liceo.
Scott Pera se lo ricorda quel ragazzo: “A volte, dopo la scuola, la signora Willis mi chiedeva di tenerlo fino a che lei non sarebbe tornata da lavoro”. L’adolescente allora si sedeva su una delle panche di una tavola calda, Pera gli prendeva qualcosa e mangiavano assieme fino a che Monja non sarebbe entrata anche lei. Un giorno, tornando da una partita persa di un punto, il coach si sedette di fianco a James, e gli chiese di tirare di più. Pera non dirà mai più una cosa del genere a nessun suo atleta – quale cestista, per di più americano, per di più angelino, ha bisogno di farsi dire che deve tirare di più?
Il Barba tira su il telefono e il leggendario coach K risponde, il Barba frequenta i club più rinomati del Paese e ha tutte le donne che vuole. James Harden invece vive con un compagno delle superiori che ora allena in una scuola vicina a Houston, e invita la sua mamma e le figlie del suo mentore al Toyota Center.
Non lasciate che vi dicano chi è James Edward Harden Junior, perché non lo sa nemmeno lui. Ma guardatelo giocare sperando che quando vincerà tutto forse riusciremo a capirci qualcosa.
Lui per primo.