NBA – Personaggi 2015: Nash e la città maledetta
Nella città degli angeli, picco di un’umanità che ormai può giudicare chiunque sempre e comunque, che può evitare di pensare ai modi e utilizzare poco rispetto anche per le leggende del suo sport preferito, tutti hanno una parola pepata per Steve Nash. E quella parola, complici le tecnologie invadenti del 2015, può sfuggire al controllo di chi la pronuncia, ammesso egli abbia un qualche interesse a tenerla al guinzaglio.
A gennaio 2014 Steve sta giocando la decima partita della sua grottesca stagione con la canotta dei Los Angeles Lakers. La decima palla a due gli evita il ritiro per motivi fisici, e quindi può incassare l’assegno da 9 milioni che la squadra californiana deve versargli per la stagione successiva. L’opinione pubblica si abbatte sull’ex numero 13 dei Phoenix Suns, accusandolo di avidità e cupidigia.
È ovvio che nella città di cui sopra tale pensiero diventi nazional-popolare in men che non si dica; le code chilometriche sulle interstatali che collegano il mondo angelino vedono rimbalzare sui social network l’odio per quello che è uno dei più grandi playmaker nella storia del basket. Ragazzini annoiati, imbottigliati nel traffico che scorrono Twitter, vedono questa faccia da anziano “rubare” i soldi alla loro squadra e non possono fare a meno di infangarlo condividendo le tesi dei suoi detrattori.
In dieci anni il Mondo è proprio cambiato…
Dieci anni fa per descrivere Steve Nash, nato inglese in Sudafrica, di cittadinanza canadese e ispirazione americana, l’unica parola era “stupore”. La stessa parola che circondava i suoi Phoenix Suns. Dal 2004 al 2010 due titoli di MVP per lui e la squadra di Mike D’Antoni arriva due volte in finale di conference e domina quella regular season che si svolge sul Pacifico; proprio il girone dei Lakers infernali di Kobe Bryant, oggi imbarazzo della NBA e di cui fino a ieri Nash faceva parte.
Un trattato della “seven seconds or less offense” quei Suns di D’Antoni. Palleggio di Nash, che poi decide in un centesimo di secondo se passarla a un compagno libero dietro la linea da tre oppure se tirare lui. Sette secondi, forse meno, e la retina si muove. Joe Johnson, Shawn Marion, Amar’e Stoudemire (nel ruolo di rimbalzista e presenza interna) resi dei fenomeni da un piccoletto con i capelli lunghi e la fibra testarda di chi viene steso più e più volte ma che torna sempre in campo più duro di prima. Quando abbiamo visto Mike e Steve confabulare sulla panchina dei Lakers negli ultimi disgraziati anni abbiamo detto: “Eccoli lì i grandi Suns”, col tono di chi sta guardando il sole più splendente spegnersi oltre Huntington Beach.
Un po’ di numeri? Terzo uomo assist della storia della NBA, primo per percentuale di tiri liberi a segno (uno spaventoso 90% abbondante). Nel 2007/2008 Nash segna 17 punti e 11 assist a partita, ha il 50% dal campo, il 47% da tre e il 90% dalla lunetta. In carriera sarà quattro volte parte del club 50-40-90 (coloro che segnano con quelle percentuali), vero dominatore di questa speciale classifica; per intenderci, Larry Bird è riuscito solo due volte a entrarci. Gli altri (Nowitzki, Reggie Miller, Durant) solo una.
Alle Olimpiadi invernali di Vancouver accende la fiaccola con l’aiuto di Wayne Gretzky, una sciatrice e una pattinatrice, tutte glorie olimpiche sue connazionali. Questo è Steve Nash lo sportivo: un mito, una leggenda dello sport mondiale.
Quanto dobbiamo a lui? Gli dobbiamo le discese impazzite di Chris Paul in area pitturata, gli dobbiamo i 50 a sera della coppia Curry-Thompson, gli dobbiamo gli Spus che rifilano 70 punti agli Heat nel solo primo tempo delle finali 2014. Gregg Popovich battè lui e D’Antoni molte volte ai Playoff in quel magico frangente che Steve trascorse in Arizona. Ma a imparare fu proprio coach Pop, che mise nei suoi Spurs il pepe dei Suns per renderli quasi imbattibili ad anni di distanza.
Il Nash uomo conserva qualcosa da ogni Paese con cui è entrato in contatto. Ha la costanza inglese, la ribellione sudafricana, la serenità canadese e l’universalità californiana. Si sveglia all’alba, va in spiaggia a fare yoga poi torna a casa a preparare la colazione alle sue figlie. Paradossalmente, è il più angelino degli angelini. Una città, quella di Los Angeles, che l’ha prelevato dal deserto e risputato indietro dopo averlo insultato e umiliato. Per chiunque sarebbe stato triste, per lui no, lui pensa fuori dagli schemi e giustamente gli sfugge come i cittadini di questa città trovino piacere nell’insultare un personaggio pubblico su Facebook.
Lui, come chi vi scrive e immaginiamo anche voi che leggete, può riavvolgere il nastro.
Staples Center, primavera 2006. Un suo compagno prende un rimbalzo durante il supplementare e gli lascia la sfera. Nash non chiama il timeout, palleggia con tutta la calma del Mondo nonostante quattro Lakers lo accerchino, alza il pallone oltre quella muraglia umana e manda i suoi Suns in contropiede. Un secondo dopo l’alley-oop chiude la contesa e gara 6 del primo turno di Playoff. Phoenix va avanti, vincendo gara 7 due giorni dopo in un US Airways Center bollente.
Questi sono stati i Suns. Questo è stato Steve Nash. Nient’altro. E, perlomeno nel giorno del suo ritiro, speriamo invano che nella città degli angeli che twittano, essi si astengano dal lapidarlo nuovamente.