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ESCLUSIVA – La Coppa d’Africa di Lozato, in un’intervista tra storia, economia e analisi calcistica

In vista della partenza della Coppa d’Africa, abbiamo parlato con Gianguglielmo Lozato, docente d’italiano a Parigi, nonché esperto e appassionato di calcio africano: agli scorsi Mondiali fu tra i pochi a pronosticare in largo anticipo la concretezza e la spettacolarità dell’Algeria, arrivata a mettere in seria difficoltà la Germania futura trionfatrice del torneo.

Siamo alle porte di una Coppa d’Africa difficile, che ha rischiato di sparire quando il Marocco si è tirato indietro per la paura dell’Ebola. In una competizione del genere, quanto conta l’ambito extra-calcistico?
È un ambito immenso, così come l’economia; e infatti l’interesse economico prevale molto. Il Marocco non è il Qatar, che organizzerà i Mondiali del 2022. Ha una notevole storia calcistica, ma non è una potenza petrolchimica: a togliergli l’organizzazione della Coppa non si rischiava troppo. Però attenzione: in Africa, paura e scaramanzia possono essere mescolate.
Poi c’è anche l’opportunità di aiutare un paese più debole sportivamente, come la Guinea Equatoriale, a proseguire un movimento espansivo. Penso, però, che dietro questo “buonismo” ci sia anche una forma di disprezzo indiretto per il governo marocchino guidato da Abdelillah Benkirane. Sullo sfondo, comunque, rimane il fatto che l’organizzazione e la logistica sono un problema storico.

In un continente attraversato da costanti tensioni (belliche e sociali), come viene vissuta una manifestazione come questa?
È vitale per l’Africa, perché profuma di indipendenza e coinvolge nazioni che non hanno molte possibilità di arrivare ai Mondiali. In un certo senso, permette di aumentare pace e coesione sociale tramite il divertimento; o almeno ne frena l’indebolimento. E poi è utile per conservare e migliorare le tradizioni e gli stili delle varie nazionali: la cultura del calcio africano.

I club europei non sono contenti di perdere i propri giocatori. In futuro c’è la speranza di armonizzare il calendario, oppure ha più senso che la Coppa d’Africa resti in inverno?
Anzitutto c’è un problema climatico: l’inverno africano è più propizio per una competizione del genere. E poi è anche un segno di indipendenza, la volontà di emanciparsi dall’Europa: ci vorrà ancora un secolo per superare la sfiducia reciproca derivante dal colonialismo, che frena molte potenziali iniziative. E poi, paradossalmente, spostare la competizione potrebbe comportare ancora più problemi: con la Coppa all’inizio dell’estate (prima che il clima diventi impossibile), sarebbe difficile non intralciare la fase finale della Champions.

E l’Europa calcistica è popolata di talenti africani. Quanto può essere un limite per le nazionali africane?
Le nazionali africane devono riuscire a imporre le proprie priorità. Oltretutto, può diventare un problema anche per le squadre europee: tornando a parlare del calendario, la Coppa d’Africa in inverno alla fine fa comodo anche ai nostri club, perché altrimenti molti giocatori potrebbero riposarsi solo una estate ogni quattro anni (la Coppa ha cadenza biennale, e una volta ogni quattro anni ci sono i Mondiali).

Da decenni si dice che il movimento africano è in crescita, eppure nessuna squadra africana ha ancora mai raggiunto le semifinali mondiali. Una crescita troppo lenta?
È il ritmo africano: sigillato dall’instabilità, procede per cicli a singhiozzi, con attori diversi e variabili. Spesso ci sono stati talenti isolati, come Abedì Pelé in Ghana, o Bruce Grobbelaar in Zimbabwe. Adesso c’è un progresso evidente: negli scorsi decenni sono sempre mancate organizzazione e autocritica, ma in questo senso continuo a vedere l’Algeria come primo germe di una possibile rivoluzione. E ha anche un allenatore francese di buona fama. Secondo me, il futuro è loro.

E allora facciamo un fanta-pronostico: quali saranno i prossimi successi algerini?
Potendo sognare, dico anzitutto che in Russia potranno confermarsi, e poi credo e spero che in Qatar possano concludere un ciclo. Andando a tappe: se in Brasile si sono fermati agli ottavi, sarebbe bello se nel 2018 arrivassero ai quarti e quattro anni dopo in semifinale. Magari di fronte a un’altra formazione africana — o di fronte alla Turchia, se vogliamo restare nell’ambito dell’Impero Ottomano.

Tornando ai giorni nostri, invece, cosa si aspetta di vedere nel dopo-Halilhodžić? Gourcuff cambierà atteggiamento, o vedremo ancora un gioco offensivo e spettacolare?
In questo momento, l’Algeria simboleggia il riscatto del calcio africano: che progredisce, anche se a ritmo suo. E un allenatore come Gourcuff, abituato ad adattarsi al contesto, può rappresentare un buon prolungamento per il ciclo inaugurato dal tecnico bosniaco — un po’ come quando Lemerre successe a Jacquet, portando a casa gli Europei del 2000. L’Algeria è una squadra completa, e ha un ottimo gioco di testa: storicamente una prerogativa degli egiziani, che hanno vinto ben sette edizioni della Coppa d’Africa (anche se stavolta non ci saranno).

Come mai ancora una volta avremo al via pochi allenatori africani (solo tre)?
Gli allenatori autoctoni formati da istituzioni ufficiali, alla fine, sono piuttosto pochi. E, soprattutto, subiscono troppe pressioni, troppi paragoni dovuti all’impazienza: è il rovescio della medaglia della passione e del tifo. E poi c’è il potere televisivo che diffonde tantissime partite del Barcellona, del Bayern, o della Juventus: sognare costa poco, e il tecnico europeo ne è parte.

Aubameyang, Brahimi, Yaya Touré, Gervinho, Doumbia, Chupo-Moting, Aboubakar: qual è la vera stella di questa edizione?
Ne scelgo due: Brahimi e Gervinho, entrambi allenati da tecnici francesi (la scuola dominante, in Africa).

E, invece, quali saranno le rivelazioni, quelli che torneranno in Europa sotto una luce migliore?
I nomi sono tanti. Solo ripensando all’amichevole Tunisia-Algeria, sceglierei i due autori dei gol: l’attaccante Khazri, del Bordeaux, e il difensore Cadamuro, dell’Osasuna; magari si ritrovano in finale. E nella Tunisia ci sarebbe anche Chikhaoui, un gran talento falcidiato dagli infortuni. Ma i nomi da fare sono davvero tanti. Spesso la differenza, nelle nazionali africane, la fa la qualità del portiere: sempre restando a Tunisia-Algeria, ci sono Aymen Mathlouti e Raïs M’Bolhi: il primo gioca ancora nell’Étoile du Sahel, il secondo è a Philadelphia. Per entrambi è l’occasione giusta.