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Dai derby di Champions al derby del nulla

Era il 13 maggio 2003.
Non me ne vogliano gli interisti, so che per loro è una data infausta. Ma, d’altronde, è la data che rappresenta il punto più alto della Milano calcistica in Europa. Non solo il Milan, né solo l’Inter. Ma Milan e Inter, insieme, in semifinale di Champions League. Un momento altissimo non solo per Milano, ma per l’Italia tutta, vista la presenza della Juventus nell’altra semifinale, contro il Real Madrid.

Com’è finita lo sappiamo tutti ed è inutile star qui a ricordare l’1-1 finale con gol di Shevchenko e Martins che qualificò il Milan alla finale del 28 maggio 2003 a Manchester contro la Juventus, battuta poi ai rigori.
L’occasione, però, ci è cara per ricordare — invece — come poco più di un decennio fa Milan e Inter vivessero delle situazioni diametralmente opposte a quelle degli ultimi due-tre anni.

Dodici stagioni fa Milan e Inter si incontravano in semifinale di Champions, dieci stagioni fa ai quarti di finale.
Il Milan ha vinto la sua ultima Champions League otto stagioni fa, mentre l’Inter cinque stagioni fa.

Non è propriamente un’eternità. Ma gli eventi successi e le partite viste giocare in questi ultimi mesi a San Siro dalle due squadre di Milano assomigliano tremendamente all’ineluttabilità dell’eterno. Uno strazio senza fine e del quale non si riesce a ricordare l’inizio. Un declino senza sintomi di risalita futura.

A guardare giocare il Milan e l’Inter attuali si riesce perfettamente a capire, a comprendere e a giustificare quei tifosi che una volta riempivano San Siro e che adesso se ne stanno a casa, a guardare, se possono, una partita di Ligue 1, di Premier League o di Bundesliga. Lo spettacolo è davvero indegno e andare allo stadio a vederlo è davvero sintomo de “l’amore della vita”, perché altrimenti non si spiega.

Cercando di capirne i motivi, saltano all’occhio le motivazioni economiche: Milan e Inter non sono più le potenze che erano prima, c’è la crisi, gli stadi di proprietà, i fatturati sono 1/3 di quelli delle “grandi” d’Europa, la fiscalità spagnola, le cavallette.
Tutto vero (oddio, forse tranne le cavallette, ma non ne sono certo), ma la verità è che quei pochi — rispetto alle altre squadre europee, non in generale — soldi che girano vengono spesi male. Molto male, aggiungerei.
L’esempio più lampante è il Borussia Dortmund, che, sì, avrà lo stadio di proprietà e il pienone a tutte le partite giocate in casa, ma ha anche un fatturato in linea con quello di Milan e Inter. E i gialloneri di Germania guidati da Klopp sono la dimostrazione di come si possa costruire un’ottima squadra anche senza essere una potenza come il Bayern Monaco.

I più attenti osservatori potranno dirmi “eh, ma quest’anno è nelle ultime posizioni in Bundesliga”.
Tutto vero, tutto giusto. Ma dal 2010 a oggi ha vinto 2 campionati, 1 coppa di Germania, 2 Supercoppe tedesche ed è arrivato in finale di Champions League nel 2013, proprio contro il Bayern Monaco inarrestabile di quell’anno. E in questa stagione si è già qualificato per gli ottavi di Champions League, vincendo il suo girone. Vendendo ogni anno, o quasi, i suoi pezzi più pregiati e andando a comprare giovani di valore in giro per il mondo.
Si chiama “progetto tecnico”: a volte può funzionare meglio, a volte meno (in ogni caso dubito che il Borussia Dortmund resti in fondo alla classifica fino a fine campionato), ma almeno c’è.
L’importanza di avere un progetto ben visibile è proprio la tranquillità che può infondere ai tifosi, che, nonostante un periodo non ai massimi livelli, sanno che prima o poi tutto tornerà alla norma. Perché c’è un gioco. E il gioco viene prima dei giocatori: se un progetto ha come causa ed effetto il gioco stesso, allora sarà vincente.

Bastano queste parole a capire la differenza che c’è tra Milan, Inter e una qualsiasi squadra con un progetto tecnico serio.
Sui problemi tecnico-tattici del Milan abbiamo già discusso, parlare di quelli dell’Inter sarebbe come fare un copia/incolla. Inzaghi e Mazzarri sono talmente simili, al momento, da far quasi impressione.
L’errore principale delle due dirigenze è stato quello di fidarsi più dei “nomi” (Vidic, Medel, M’Vila da una parte, Ménez, Torres, Alex dall’altra) più che alle reali necessità di due rose deficitarie e di affidare questi “progetti di rinascita” a due allenatori che come unica arma in campo hanno il contropiede e la rottura del gioco avversario.

A parer mio, ma credo condivisibile da tutti, se si vuole ripartire da zero e ricostruire dalle macerie delle gestioni precedenti, come prima mossa si dovrebbe prendere un allenatore con un’idea di gioco chiara e precisa, attorno alla quale far girare e far crescere i giocatori.
A un progetto del genere il tifoso di Milan e Inter potrebbe perdonare anche eventuali passi falsi durante il cammino, forte della presenza di un qualcosa di reale che sta crescendo e che si sta costruendo.
Ma a queste condizioni no, il tifoso non ce la fa. Non va più allo stadio, è sfiduciato. E se ci va cerca di esprimere il suo dissenso fischiando il proprio amore, cercando di fargli capire che così non va, che è ora di cambiare rotta, che merita di più.

Prima di venire zittito dal primo ragazzino che segna un gol sotto la curva e si mette l’indice davanti alle labbra. Re tra le macerie, grande tra i piccoli. Ma lui, di quando a Milano si era davvero grandi, cosa ne sa?