Il modello italiano: Immobile
Ci sono (almeno) due scuole di pensiero: quella di chi oltre un certo limite dovrebbe fermarsi e gestire, per non umiliare un avversario stracciato; e quella di chi invece sostiene che, proprio per onorare il proprio oppositore, sia necessario giocare fino al fischio finale. Ieri vi abbiamo parlato di una Roma non all’altezza dell’Europa. Pronta a partecipare, non a vincere; in corsa per gli ottavi, ma limitata comunque a un cammino da comprimaria.
A Roma abbiamo visto all’opera un Bayern seguace della seconda scuola (così come la Germania in Brasile, in semifinale). Neanche spietato: semplicemente schiacciasassi. Abituato a imporre il proprio gioco e a imporsi. Nel bene e nel male (già un anno fa era il favorito per la Champions, e si fece matare dal Real Madrid, senza mai essere in grado di passare).
È l’ennesima riedizione dello scontro Italia-Germania: storicamente, siamo stati in grado di guizzi notevoli (la partita del secolo, lo 0-2 di Dortmund, o anche il più recente 2-1 di Varsavia); ma a Mondiali stiamo 4-4, e a Europei perdiamo per 3-1 (unica vittoria azzurra nel 1968). E la tendenza sembra tutta tedesca.
Rudi García, francese trapiantato con successo a Roma, ha capito qual era l’unica cosa da fare nell’immediato: limitare i danni, contenere, giocare sporco. A viso aperto, ne avrebbe presi altri ventordici. Quindi dentro qualche seconda linea, mordere le gambe e chiudere gli spazi, ma senza slanci. Senza idee, senza gioco. Per salvare l’onore e rifarsi una verginità – ma non per diventare uomini.
La lezione è questa qui: ad armi pari, non ce la facciamo più con nessuno. Non ce la fa la Juventus, non la Roma, non un Napoli che in Champions non è neppure riuscito a centrare la fase a gruppi. È il tempo di altre idee, altre squadre, altri modelli; Guardiola, in questo, è un portabandiera (possesso palla – non sterile – e tanto gioco), ma non per questo da imitare.
Forse per la singola squadra non sarà così; ma personalmente ritengo lo 0-2 di Monaco peggiore dell’1-7 dell’Olimpico. Per il semplice fatto che ha reso ineluttabile l’evidenza: possiamo limitarli, non batterli. In altre parole: il nostro movimento è indietro, nelle retrovie del calcio che conta. Possiamo togliere idee ai nostri avversari, ma non abbiamo modelli alternativi da proporre. Al massimo possiamo scimmiottare gli altri, sperando di produrre imitazioni decorose.
A ben vedere, però, un modello ce l’abbiamo; uno, ma di qualità. Si chiama Ciro Immobile, ed è quello che dobbiamo cercare. Veniva da annate negative, in Serie B, prima che un maestro di calcio come Zdeněk Zeman lo lanciasse in quel di Pescara. Il resto parla di Torino, titolo di capocannoniere e trasloco in Germania. Siamo diventati una provincia tedesca (l’Europa pare non esistere più, diciamo così): terra di saccheggio.
Ma possiamo provare a rovesciare il paradigma: terra di esportazione (quella stessa che ha fatto la fortuna economica della Germania, in tempi recenti); abbiamo talenti da formare e da diffondere e distribuire per l’Europa che conta. E magari poi da riprendere, arricchiti nelle idee e nelle gambe. Non abbiamo un modello? Esportiamo la manodopera, nel frattempo.
Se cercheremo di diventare come il Bayern (come il movimento tedesco), e lo faremo con il nostro lassismo e la nostra mancanza di rigore, sarà sempre fatica sprecata. Non abbiamo bisogno di copiare: abbiamo bisogno di nuove idee. Ne ha bisogno il nostro movimento calcistico, ne ha bisogno l’Europa. Se non riusciamo a esportare il nostro gioco, esportiamo interpreti: per non rimanere fermi, ci vogliono più Immobile.