L’estate di Opti Poba
Opti Poba nasce poco prima del 2000 – ma per le malelingue appena dopo il 1990 – in una zona povera del Sud del mondo, una periferia urbana o un villaggio di campagna, poco importa.
Non avendo molti compiti da fare nei lunghi pomeriggi equatoriali, Opti Poba si distrae tirando due calci ad un pallone di stracci, tra la polvere e il sole. Uno di quei giochi che i bambini europei non vogliono più fare.
Ma Opti Poba ha qualcosa in più degli altri coetanei che si arrovigliano nei nuvoloni brumosi. E’ una gazzella che sfiora appena le croste fangose, sa carezzare il pallone quel tanto che basta per guidarlo tra le gambe degli avversari, infilandole, saltandole o lasciandole di stucco dall’altra parte della direzione intrapresa. Opti Poba non è appesantito dalle troppe merendine ingurgitate davanti a uno schermo, ma è sempre in movimento e ben presto impara a coltivare i sogni. Così, quando l’uomo con le palme sulla camicia aperta e il cappello bianco si ferma a guardarlo giocare, in una sosta del suo viaggio alla ricerca dei talenti sperduti, rimane subito colpito dal piè veloce e dall’estro naturale del nostro eroe esotico. E’ l’uomo dei sogni, quello che apre le porte per i mondi lontani, può farti attraversare con un balzo i deserti e gli oceani per raggiungere i prati verdi e le luci bianche degli stadi europei. La trattativa è facile. Il prezzo, lo sanno tutti, anche Tavecchio.
Opti Poba arriva nella più famosa città del mondo, fa un po’ fatica ad ambientarsi, troppa sovrabbondanza intorno al pallone, lo tirano da tutte le parti, ma lui non vuole uscire da quel rettangolo verde, è lì che deve svolgere la sua missione. Ci sarà tempo per tutto il resto, si sente un atleta e vuole difendere il suo corpo dagli attacchi degli agenti atmosferici, colesterolici ed etilici. Indossa la maglia biancazzurra e tanto gli basta per sentirsi vero. Non ci mette molto a sopravanzare i coetanei, conosce le magie che s’imparano per strada e corre più veloce. Ma ha ben chiaro che si vince e si perde tutti insieme, non cerca mai di strafare, piuttosto aiuta, partecipa e festeggia quando si vince. Non come certi compagni che sembrano contenti solo quando son protagonisti in prima persona e se stanno perdendo, facile che si facciano cacciare anzitempo.
Così Opti Poba convince l’allenatore a provarlo con i grandi. Dapprima in un turno feriale di coppa, quella coppa che conta solo dalla semifinale in poi. Tanta è la gioia di ritrovarsi nel migliore dei mondi possibili, che Opti Poba non sente nemmeno l’affanno di correre. Vola leggero di porta in porta e i giornalisti di lungo corso si fermano a guardarlo: “E’ Cruyff!”, “No è Weah!”. “Come hai detto che si chiama, Opti Poba?”. Infine, arriva il derby. L’allenatore ha già deciso da tempo: giocheranno dieci giocatori qualsiasi più Opti Poba. E’ la prima volta. E Opti Poba non delude: tanto è l’entusiasmo che sembra incontenibile. Fa segnare due gol, un altro lo segna lui. Il presidente Lotito è raggiante. Con lui, si complimenta il suo grande amico, il presidente di Lega, Tavecchio. Già, Tavecchio.
Opti Poba non esiste, è un calciatore metafisico. Forse la sua esistenza ricade nel versante indimostrabile del rasoio di Occam. Tavecchio invece sì, è un navigato e concreto dirigente di lungo corso. Ci appare in tutta la sua evidenza fisica come l’uomo che si appresta a diventare il volto nuovo del calcio italiano, raccogliendo il sostegno di gran parte dei club. Nonostante ce la stia mettendo tutta per scivolare sulla propria buccia di banana.
Anche perché l’alternativa è Albertini, anche lui in lega dal 2006, non proprio appena arrivato, non proprio un candidato dall’eloquio brillante e dalle idee sovversive.
Il mondo del calcio italiano si riflette nei propri interessi, probabilmente inventerà nuovi protezionismi con la scusa di tutelare i vivai e sembra impermeabile ai cambiamenti sostanziali, tecnici ed economici. Un cosmo conservatore (macro, per niente micro), dove gli interessi prevalenti son sempre quelli dei padroni del vapore. E ci si diverte sempre meno. “Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose”, scriveva Albert Einstein. O forse era Opti Poba?